Cultura (e coltura?) dell’ostrica nei Campi Flegrei

Antonio Lucisanoven 28 apr 2023

Nell’immaginario collettivo i prodotti-simbolo dell’aristocrazia gastronomica sono fondamentalmente 3: il caviale, lo champagne e le ostriche.

Per quanto riguarda i primi due, l’Italia ha recuperato negli ultimi anni molte posizioni rispetto ai prodotti provenienti da territori tradizionalmente considerati come elettivi. Nel Bresciano e nel Parco del Ticino si produce oggi caviale di una qualità talmente alta da far impallidire quella offerta da Russi e Iraniani, mentre molti spumanti del Trentino e della Franciacorta sono ormai in grado di competere alla pari con i grandi champagne francesi, senza considerare le quote di mercato che il Prosecco, grazie al suo eccezionale rapporto qualità/prezzo, continua a conquistare, anno dopo anno, sul mercato internazionale delle bollicine.

La situazione continua ad essere invece molto meno rosea in Italia per quanto riguarda la produzione di ostriche,

che continuano a rappresentare una vera e propria icona del savoir faire francese, sebbene fossero stati i Greci e poi soprattutto i Romani, come raccontava Plinio il Vecchio già duemila ani fa, a scoprirne le valenze gastronomiche e a metterne a punto per primi le tecniche di coltivazione e conservazione.

I più grandi produttori mondiali, in termini quantitativi, sono di gran lunga i Cinesi, ma sono Bretagna e Normandia i territori in cui si alleva la stragrande maggioranza delle ostriche di più elevato livello qualitativo. Su circa 100.000 tonnellate prodotte annualmente in Europa, oltre l’80% è francese, il 10% irlandese e solo lo 0,2% proviene dall’Italia, che è invece la seconda maggior consumatrice in Europa, dopo la Francia, e ne ha importate nel 2021 per un valore di oltre 30 milioni di Euro.

Sardegna, Delta del Po, La Spezia e Parco del Gargano sono le aree geografiche italiane in cui già da qualche anno ci si è messi d’impegno per sviluppare l’allevamento di ostriche con tecniche innovative, che stanno dando risultati qualitativamente molto interessanti.

La novità è che ora anche nei Campi Flegrei si vorrebbe recuperare una tradizione antichissima:

quella che duemila anni fa aveva reso famose, proprio per la qualità della produzione di questi preziosi frutti di mare, le lagune marine di Lucrino e del Fusaro, che rifornivano quotidianamente di ostriche le tavole dei potenti, sia nelle ville in cui amavano oziare, nella vicina Baia, che nelle loro lussuose dimore romane.

Il progetto è stato presentato dalla neonata AIOST - Associazione Italiana Ostricari,

in una conferenza stampa, tenutasi la scorsa settimana, organizzata presieduta da Daniele Testa, che ha messo insieme, fra gli altri, istituzioni locali (i Sindaci di Bacoli e di Pozzuoli), imprenditori della ristorazione (come “Punto Nave” di Monterusciello e “Villa Eubea” di Pozzuoli) e della itticoltura (l’Organizzazione Professionale “Mytilus Campaniae” di Bacoli) ed esperti di sicurezza alimentare (l’IZSM di Portici).

Il luogo prescelto per questo incontro non è stato uno qualsiasi, ma nientemeno che la Sala Ostrichina (nomen omen) del Real Sito Borbonico del Fusaro, un sito quasi leggendario, già ritratto in una gouache ottocentesca nella quale erano raffigurati i pali di legno fissati sul fondale e collegati da corde, dove si appendevano appunto le ostriche allevate con l’antica tecnica “a pergolato”.

Il livello qualitativo di quella produzione, molto elevato per quei tempi, veniva anche pubblicizzato con grande enfasi dalla società pubblica che fino ai primi del ‘900 gestiva entrambi gli specchi d’acqua in cui queste ostriche erano allevate: il lago del Fusaro e il Mar Piccolo di Taranto.

Era proprio la struttura dell’Ostrichina, sulle sponde del lago, ad ospitare, fino a fine Ottocento, un “Grand Restaurant” che per 5 lire offriva un pranzo a prezzo fisso, con un menu basato proprio su ostriche e altri pesci allevati in loco.

Tornando ai giorni nostri,

il progetto dell’AIOST presentato nella conferenza stampa si propone di formare, attraverso un percorso specialistico su 3 livelli, una nuova figura professionale di esperto di questo prodotto, che sappia non solo promuovere la conoscenza delle caratteristiche delle diverse tipologie di ostriche presenti sul mercato, ma possa anche supportare nuove iniziative imprenditoriali che sarebbero in cantiere per realizzare proprio nel Lago del Fusaro moderni allevamenti, in grado di rinverdire i fasti di un tempo.

Il termine utilizzato per definire questa nuova figura professionale è quello di ostricaro,

in omaggio a quel titolo di “ostricaro fisico” che, secondo le cronache di metà ‘800, fu coniato addirittura da re Ferdinando II di Borbone per elogiare scherzosamente un giovane pescatore che gli aveva offerto un’ostrica del Fusaro di straordinaria qualità (“dottore fisico” era a quei tempi un titolo accademico molto ambito, paragonabile all’attuale “dottore di ricerca”).

L’evento del Fusaro è stata anche l’occasione per mettere a confronto e far degustare, accompagnandole con un fresco spumante di Falanghina flegrea, 5 diverse tipologie di ostriche, suddivise per provenienza:

  • le Marennes Oléron, provenienti dalla Regione Poitou-Charentes del Nord Ovest della Francia, che presentano una caratteristica colorazione verdastra, dovuta alla presenza di un’alga blu che cresce negli specchi d’acqua in cui avviene la fase di affinamento finale; sono ostriche che si fregiano una specifica IGP e presentano un grande equilibrio fra salinità e dolcezza, con spiccate note di nocciola;
  • quelle della Bretagna, dal sapore più amarognolo, quasi tannico, di delicata salinità, media sapidità e retrogusto di funghi porcini, nocciola e muschio;
  • le ostriche della Normandia, croccanti, sapide, di buon corpo e dal gusto iodato;
  • le Irlandesi, dalla carne compatta e dal sapore deciso;
  • le ostriche italiane del Delta del Po, dolci, carnose e croccanti.

Come si è detto, il progetto si propone un obiettivo relativamente semplice, come è quello di formare nuove figure professionali in grado di “fare cultura” in questo settore merceologico, e uno molto più complicato, perché per recuperare l’antica tradizione dell’allevamento di ostriche nel Lago Fusaro si dovrebbe mettere su dal nulla una intera filiera e per crearsi una reputazione di qualità e di affidabilità servono tempo, costanza e grandi competenze di natura tecnica, organizzativa e commerciale

Nulla è impossibile, ovviamente, ma non bisogna dimenticare che “di buoni propositi è lastricato l’inferno”, come ammoniva Ovidio 2000 anni fa, proprio quando la coltivazione flegrea delle ostriche raggiungeva il suo massimo splendore: un modo elegante per mettere in guardia dai facili entusiasmi e ricordare quanto sia complicato passare dalla semplice enunciazione di un progetto alla sua concreta realizzazione.

In questo caso specifico, le premesse per avere successo ci sarebbero tutte,

considerato che la richiesta di mercato di ostriche di alta qualità cresce anno dopo anno, la produzione italiana comincia pian piano a farsi apprezzare e la vocazione del territorio flegreo verso questo genere di prodotti è antica e ampiamente riconosciuta. E ci sarebbe anche un altro aspetto importante: i segnali di interesse e disponibilità alla collaborazione reciproca lanciati dai diversi portatori d’interesse, dagli imprenditori privati alle istituzioni locali.

Ora c’è solo da mettersi all’opera, sperando che sia smentito il pessimismo di chi ha visto troppe volte finire nel dimenticatoio progetti su cui tutti, all’inizio, sembravano pronti a impegnarsi seriamente.

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