IL CASATIELLO NON ESISTE. O ALMENO NON È QUELLO CHE PENSATE DI FARE!
Il casatiello napoletano, quello serio, del sabato Santo non lo fa più nessuno ma manco lo sa. Quelli che vediamo in giro sono tutti tortani, perché non basta la disposizione delle uova a trasformarlo. A raccontarci differenze, leggende, storia e ricetta del piatto della tradizione napoletana lo chef Ivan De Benedictis
Pasqua è vicina e noi siamo già pronti a sederci a tavola. Le festività sono tutte un tripudio di pietanze della tradizione, eppure la Pasqua - sarà perché è breve ma intensa, sarà perché punto di arrivo dopo 40 giorni di moderata gola (giorni di scammaro, del mangiare di magro) - sembra esserne un po’ più ricca.
In Campania - come abbiamo detto - si inizia dal giovedì Santo con la zuppa di cozze e dopo digiuno o simil tale del venerdì, si prosegue con i casatielli e tortani del sabato che precedono i banchetti della domenica di Pasqua ed i rinforzi del lunedì in albis.
IL CASATIELLO
Si tratta di un rustico, un pane salato, tipico del periodo pasquale che pare stato inventato ad Arzano. Si presume che il suo nome derivi dalla parola napoletana caso (cioè cacio, da cui casatiello), ingrediente che fa parte del suo impasto.
L'esistenza del casatiello, al pari di quella della pastiera, altro prodotto pasquale partenopeo, è attestata almeno a partire dal Seicento.
Una conferma indiretta proviene dalla favola La gatta Cenerentola di Giambattista Basile, scrittore napoletano vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, nel passo dove vengono descritti i festeggiamenti dati dal re per trovare la fanciulla che aveva perso la scarpetta:
«E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che ’nce poteva magnare n’asserceto formato.»
Questo "pane condito" si è conquistato un posto molto speciale della tradizione napoletana
in quanto rappresentativo del forte simbolismo che questo popolo riesce a mettere nei suoi piatti. Infatti, oltre alla ritualità della preparazione stessa, anche la decorazione è segno del legame dei napoletani con credenze religiose e socialità: le strisce di pane disposte a ingabbiare le uova semi-sommerse nell'impasto rappresentano la croce su cui morì Gesù, mentre l'aspetto anulare è un richiamo alla ciclicità insita nella risurrezione pasquale; l'uovo rappresenterebbe la vita nuova, la rinascita appunto, e probabilmente la presenza del grasso animale - nel caso specifico del maiale - potrebbe essere un augurio di ricchezza, in quanto questo animale ha rappresentato per lungo tempo la dispensa del popolo.
Il tortano è un prodotto molto simile e la principale differenza sembrerebbe esser diventata solo la presenza delle uova che nel casatiello sono posizionate anche nella parte superiore e non solo sode e a pezzettini nell'impasto come nel tortano.
Ma siete certi sia davvero così? O forse tra le tante storie, in una tradizione che alla fine cambia di casa in casa, c'è stata una variazione, un arricchimento, rispetto all'originale?
Ho deciso di farvelo raccontare da un cuoco napoletano innamorato della cucina - napoletana e non - e della città, curioso conoscitore della storia e delle leggende.
È Ivan De Benedectis,
un vero cantastorie col cuore d’altri tempi e la gentilezza che auguro al mondo. Ivan è lo chef del ristorante Ciro al Borgo Marinari, sul lungomare di Napoli ed immerso nella suggestiva atmosfera di Castel dell’Ovo, dove ripropone in maniera eccellente preparazioni intramontabili della nostra cucina regionale: spettacolare il suo ragù, irrinunciabile la sua genovese, ammaliante il suo spaghetto con le vongole. E mi fermo!
Potrei continuare, certo, ma mi fermo e lascio a lui stesso l'onere di raccontarsi e trasportarci nella storia del casatiello!
Premesso che ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove la cucina è la principale discussione, devo tanto a mia madre e mia nonna.
Ho preso il diploma di cucina presso l’istituto Ipssar Rossini a Piazza Bagnoli con grandi insegnanti tra cui gli chef Peppe de Cesare, Ugo D’orso e Peppe Scuotto.
Eppure sono entrato per la prima volta in cucina all’età di 16 anni con Angelo Falanga, chef del ristorante La Cantinella (di Giorgio Rosolino) che all’epoca era stellato. Da lì ho cominciato a girare un po’ l’Italia: ho iniziato con Cattolica e Gabicce Mare, a farmi le ossa negli hotel; poi a Emilia Romagna e Marche si sono aggiunte Toscana e Veneto, rispettivamente con un hotel a 4 stelle nella Conca di Capoliveri all’isola d’Elba ed a Peschiera del Garda, dove resto più di un anno.
A quel punto ho sentito l’esigenza di tornare a Napoli: qui ci sono state diverse avventure in locali come Radici dove sono stato il sous chef di Carlo Spina (attuale chef di Veritas, 1 stella Michelin) e ho potuto fare un’esperienza fondamentale per me e per la mia crescita; a seguire c’è stato La Contessa ai Camaldoli (un locale del 1864) con don Luigi Di Maio; ancora Les Gagà e CA.PE.RI (acronimo di carne - pesce - riso) dove ho potuto lavorare a braccetto con Riccardo Facchini.
Ad oggi, e da ben 6 anni ormai, sono al Borgo Marinari da Ciro 1936 ed ho una brigata fatta di vecchi amici di scuola alberghiera e non.
Volevo tornare a fare la mia cucina, quella della mia tradizione, che reinterpreto grazie alle mie esperienze: e quelle familiari e quelle fatte nelle varie cucine e regioni. La cucina vista in questa ottica dà modo di difendere le origini, le radici e rende possibile pensare sempre che domani possa essere un giorno migliore.
Se potessi scegliere di nascere nuovamente io sceglierei ancora di fare il cuoco, solo in un’altra epoca: quella della grande cucina nelle case dei signori, quella della grande materia prima lavorata e conservata, quella in cui davvero si creavano tendenze. In parte sono stato davvero fortunato perché avendo lavorato con grandi maestri diversamente giovani ho potuto affondare la mani nella vera tradizione. Ho sempre pensato che fare la cucina tradizionale sia una sfida seria e profonda: se fai cucina d’autore, beh, certamente sarai avvantaggiato sul fatto che i giudici - o coloro che si cimentano in tale ruolo - si riducono notevolmente; se, invece, fai un buon ragù hai il numero di “spettatori” che si equivale con il numero dei giudici.
TORTANO o CASATIELLO?
Credere che ciò che differenzia il tortano dal casatiello siano le uova in superficie è la più grande bugia della terra.
Una cosa è certa: se è più basso di 9 centimetri o è un pagnottiello o un panino napoletano!!!
La diatriba tra casatiello e tortano è sempre esistita in questo periodo dell'anno, perché parliamo di un rustico che nasce come tipico delle tavole di Pasqua ma che oggi (purtroppo o per fortuna) si prepara tutto l'anno, facendo perdere quella che io chiamo educazione gastronomica napoletana. Intanto io, però, una mia idea delle differenze tra i due prodotti me la sono fatta e ho deciso di raccontarla a tutti voi attraverso Francesca.
Non penso che il mio racconto sia verità assoluta, intendiamoci!
Dico colo che tra le tante notizie che si trovano e che si fanno circolare, io ho deciso di credere ad una storia bella, che si base su testimonianze (scritte e narrate a voce) che la mia curiosità mi ha spinto a cercare e che trovano - in effetti - riscontro sia nell'etimologia dei termini, sia nella localizzazione dei primi centri di diffusione dei due rustici pasquali.
Partiamo dalle cose in comune!
Il casatiello ed il tortano hanno impasti molto simili: acqua, farina, sale, pepe e un grasso animale ovvero la sugna; l'utilizzo di quest'ultima è certamente dovuto alla sua reperibilità in qualunque casa (dato che non tutti avevano la possibilità di disporre dell'olio). La sugna si otteneva schiacciando con una pressa i cicoli precedentemente avuti dalla coperta di grasso del maiale. Quanto ricavato veniva poi impastato con una base di pasta di pane.
Le uova sono simbolo di rinascita, della perfezione della vita, nonché massima rappresentazione della Pasqua; ciò le rendeva indispensabilmente presenti in entrambi i rustici: nel tortano venivano messe da sode solo all'interno, mentre nel casatiello venivano messe anche a crudo sulla sommità, a decorare. Dunque la disposizione era diversa, sì, ma il motivo era tutt'altro e ve lo spiegherò più avanti!
Una cosa è certa: sono entrambe ricette di recupero!
Ora vi racconto il tortano...
La parola "tortano" voleva indicare una torta non torta, in quanto salata. Quindi il nome di questo rustico andava a negare l'idea di dolce che gli conferiva l'aspetto. Il tortano, infatti, veniva impastato senza avvolgerlo e quindi dava visivamente l'effetto di una torta, sicuramente una torta rustica ma pur sempre torta; invece il casatiello, in forma circolare partendo da una pettola.
Il tortano veniva preparato nelle zone della Campania in cui c'era maggiore lavorazione di salumi: ai Camaldoli (che non sono Napoli centro, essendo arroccati) oppure nella zona del beneventano e del Sannio, ma anche nella provincia partenopea alle spalle di Secondigliano, ad esempio a Caivano, dove c'era molto terreno e tanto allevamento. Essendoci una forte produzione di salumi e insaccati, questa preparazione serviva anche al recupero dei prodotti, dato che sarebbero stati poi macellati nuovi animali; dunque si facevano questi tortani utili anche per le gite fuori porta o comunque come cibo da viaggio.
...ma il casatiello è n'ata cosa!
Il casatiello non ha questa presenza di salumi (a parte quanto conferito dalla sugna). La parola casatiello, infatti, pare derivi dal termine napoletano caso (dal latino casus), ovvero cacio, formaggio. Per cui, con altissima probabilità il rustico chiamato casatiello ha un legame con "caseario" e sarà nato dall'idea di coloro che lavoravano i formaggi. Di fatti si faceva nelle zone in cui c'era grande lavorazione casearia e di latticini, quindi anche a Battipaglia, Aversa.
I casari avevano impostato questa stessa base rustica della pizza ingrassata, solo che all'interno avevano messo gli avanzi dei loro formaggi a pasta dura e le uova (sia dentro che sopra).
Quindi le uova esistevano posizionate sopra ma esistevano per un motivo ben preciso:
all'epoca c'erano i forni comuni, per cui ognuno ci portava il proprio casatiello a cuocere. Una volta messi tutti all'interno avrebbero avuto poi difficoltà a riconoscere ogni famiglia il proprio prodotto. Ecco a cosa servivano le uova: a poter "segnare" ogni rustico con le iniziali del legittimo proprietario. La sigla veniva fatta con la pasta stessa in modo da far risaltare la lettera in maniera nitida
In seguito, all'aumentare delle richieste, le iniziali furono sostituite da una palettina di acciaio con il nome stampato che accompagnava il ruoto in cottura. Con il passare del tempo e con la possibilità di tutti di avere il proprio forno in casa, non c'è più stata la necessità di contrassegnare il proprio casatiello. Eppure, in epoca più recente, si è cominciato a mettere sulle uova una striscia di pasta a forma di croce, probabilmente per onorare l'effetto visivo della tradizione ma che subito ha trovato nel simbolismo religioso un terreno fertile per lo storytelling (il tributo alla croce di Gesù; la somiglianza - all'aspetto - con la corona di spine; etc etc).
Pagnottiello e Panino Napoletano
Sono le versioni aggiornate e monoporzione delle suddette pietanze pasquali, presenti soprattutto in centro città al tempo in cui esisteva il vero street food. Le strade di Napoli erano colme di venditori di ogni cosa ed oltre ad arricchire l'offerta erano una certezza perché specializzati nel proprio prodotto. C'era qualunque cosa si adattasse ad essere consumato al volo: dal cosiddetto "spasso" ovvero le noccioline della domenica; al panino con la ricotta; fino al "pepe 'e gamber'i" ovvero i gamberetti conditi con sale e pepe da mangiare per strada.
Per il pagnottiello parliamo di un impasto di pane allargato con dentro un uovo intero, dei formaggi e dei salumi. Veniva poi chiuso a cazzotto. Invece, il panino napoletano è un tortano fatto a rotolone che poi viene tagliato a pezzi e smaltato con uova.
IL CASATIELLO NON ESISTE... NON PIU'.
Il pubblico, il mercato non lo richiederebbe un vero e proprio casatiello perché con la presenza di sole uova e formaggio avrebbe un gusto molto diverso e forse più statico. Insomma sarebbe poco vendibile, perché il cliente oggi ricerca la presenza dei salumi in questo tipo di preparazioni. Attualmente sintetizziamo con provolone dolce e piccante ma è inevitabile dire che il casatiello oggi non lo fa più nessuno! E probabilmente fanno anche bene perché nemmeno piacerebbe!
Personalmente ne vado pazzo ed in questo periodo non posso fare a meno di mettere le mani in pasta e farmi un buon vero casatiello originale! E non posso che dire "GRAZIE" a mia nonna Nunzia che è con me ad ogni impastata.
Sapete che vi dico? Vi voglio dare anche la mia ricetta: non si sa mai che torniate tutti a fare il casatiello serio?!
La ricetta del Casatiello Pasquale Serio di Ivan De Benedictis
Ingredienti
- IMPASTO
- 800 gr farina 00
- 200 gr farina 0
- 20 gr lievito di birra
- 700 acqua fredda nella quale sciogliere il lievito di birra
- 35 gr sale
- 7 gr zucchero (serve a caramellare l’impasto e renderlo bruno durante la cottura, ma è ininfluente ai fini del gusto)
- 15 gr pepe
- 100 gr parmigiano grattugiato fine
- 300 gr sugna o strutto (io preferisco lo strutto perché è il grasso di pancia del maiale, dà maggior sapore)
- FARCIA
- 300 gr cicoli di sugna (quindi di macelleria e non di salumeria; ovvero quelli ricavati dopo la lavorazione del panetto di sugna crudo)
- 15 uova sode, senza sale, tagliate in 4 spicchi
- 4 uova crude per decorare la superficie
- 350 gr provolone dolce a dadini (io utilizzo Auricchio, "brand storico" del vesuviano)
- 300 gr provolone piccante a dadini (Auricchio)
- 200 gr pecorino a dadini (buccia nera qualità romana)
- una spolverata di pepe macinato
- una grattugiata di formaggi a pasta dura misti tra grana e pecorino
- strutto q.b.
Procedimento
- metodo di impasto:
è consigliabile prepararlo il giorno prima proprio per la struttura dell'impasto che sarà abbastanza "sfoglioso" in quanto fatto con lo strutto. Dunque oltre ad essere già di suo un impasto non statico, diventa ancor più grasso per l'aggiunta del parmigiano alla farina per iniziare e allora procediamo:
1) preparare il piano di lavoro e disporvi farina e parmigiano creando una fontana
2) iniziare ad incorporare man mano l'acqua fredda nella quale abbiamo precedentemente sciolto il lievito di birra
3) una volta che il tutto avrà preso garbo, richiamando la farina verso il centro, aggiungiamo lo strutto (300gr come indicato)
4) aggiungo poi lo zucchero
5) a impasto chiuso aggiungo il sale, questo perché diversamente il sale bloccherebbe l'avvio dei processi del lievito
6) una volta creatasi la massa, la si lascia lievitare in un contenitore da cucina almeno 5 o 6 ore a temperatura ambiente; dopodiché possiamo riporre tutto in frigorifero per una notte
7) al mattino successivo l'impasto va tirato fuori dal frigo e gli si danno delle pieghe lasciandolo nuovamente a lievitare a temperatura ambiente per un'ora
8) trascorso questo tempo sarà arrivato il momento di stendere l'impasto sul piano da lavoro fino ad avere una pettola
- metodo di farcitura:
9) iniziamo così la farcitura: spennellare con lo strutto (a piacere) toccando l'impasto di modo che questo faccia da collante per la dadolata di formaggi misti che in precedenza avremo preparato
10) aggiungere una spolverata di pepe, i formaggi grattugiati e le uova sode tagliate che vi ricordo devono essere senza aggiunta di sale (i formaggi sono già abbastanza sapidi e robusti)
11) arrotolare la pettola fino a creare un salsicciotto, un rollè
12) ingrassare il recipiente e disporre a ciambella l'impasto avendo cura di far combaciare le estremità che unendosi daranno della pasta in esubero che potrete strappare via ma tenendola per la decorazione
13) poggiare le uova intere sull'impasto come decorazione e fissarle con delle strisce di impasto (quello in esubero, di cui sopra) a formare delle croci
14) aggiungere qualche tocco di strutto (basta qualche fiocco) sulla superficie e lasciare lievitare altre 3 ore sempre a temperatura ambiente
Cottura
15) cuocere in formo preriscaldato a 160 gradi per 2 ore osservandone la cottura. Preferisco consigliarvi una cottura più delicata così da non sbagliare (ognuno conosce il proprio forno) ed avere una maggiore omogeneità. Il trucco per incroccantirlo potrebbe, poi, essere farlo cuocere gli ultimi 10-15 min a 175 gradi.
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