La tradizione come alibi alla mediocrità: cronaca di una morte annunciata
Pochi giorni fa, con il consueto tempismo, Foodclub ha rilanciato la notizia di un nuovo e rivoluzionario formato di pasta (i “Cascatelli”) inventato da un podcaster americano e andato immediatamente a ruba anche qui da noi, sebbene il suo artefice non abbia mai prodotto pasta e malgrado il prezzo del prodotto (18 $, oltre ovviamente ai costi di trasporto) non sia esattamente da hard discount.
Anziché sforzarsi di capire come sia nata e sia stata realizzata questa idea, molti hanno sollevato snobisticamente il sopracciglio, ritenendo che la pasta sia “cosa nostra” e che qualsiasi tentativo di migliorarla, soprattutto se realizzato altrove, non possa essere degnato di attenzione da chi si sente un profondo conoscitore di questo prodotto.
La verità è che c’è un modo sicuro per far morire un’azienda: adagiarsi sugli allori e non innovare mai.
Molti pensano che l’innovazione sia importante solo per chi opera in comparti ad elevato contenuto tecnologico e che quindi essa riguardi solo marginalmente chi opera nel food, dalla produzione agricola ai servizi di ristorazione, passando per le trasformazioni industriali.
A supporto di questo atteggiamento suicida si tira spesso fuori, del tutto a sproposito, lo scudo della tradizione, che non è affatto l’antitesi dell’innovazione e diventa anzi un alibi per quei mediocri imprenditori di seconda o terza generazione che addirittura si vantano di aver saputo mantenere inalterati nel tempo i metodi di lavoro messi a punto dai propri antenati. Sono gli stessi che poi non fanno altro che disprezzare i prodotti o i servizi dei propri concorrenti e si lamentano in continuazione dei prezzi sempre più bassi che il mercato, che non capisce cosa sia veramente la qualità (sic!), gli riconosce.
Non si rendono conto, poverini, che le attese del consumatore si evolvono giorno dopo giorno e che innovare significa semplicemente intuire prima e meglio dei propri concorrenti quali potrebbero essere queste attese.
Inventare di sana pianta un nuovo prodotto o un nuovo servizio è un obiettivo molto più complesso, che è alla portata solo dei leader, cioè delle grandi aziende in grado di condurre costose ricerche mirate sui segmenti di mercato di proprio interesse, di condurre specifici area test per i prodotti-pilota elaborati dal proprio dipartimento di Ricerca & Sviluppo e di disporre degli imponenti budget di comunicazione necessari a promuovere l’innovazione, una volta che ne sono stati definiti e controllati gli standard qualitativi ed il posizionamento di prezzo rispetto alla concorrenza.
Non ci sono quindi speranze per le piccole e medie imprese? Tutt’altro, perché innovare può significare anche semplicemente modificare il modo in cui si confezionano le patate o si riempie un vasetto di yogurt, oppure come si presenta una pizza o si effettua un ordine online.
Il caso del nuovo formato di pasta inventato negli USA è esemplare.
Senza farsi condizionare dai pregiudizi e con il proverbiale pragmatismo yankee (che si evince anche dalla capacità di coniare nuovi termini, per spiegare con una sola parola concetti complicati), il nostro podcaster ha semplicemente riflettuto sulle caratteristiche qualitative che, più o meno implicitamente, un consumatore si aspetta di trovare in una pasta, soprattutto quando egli non è particolarmente esperto nel cucinarla, come sono gran parte dei suoi connazionali:
- essere capace di assorbire/trattenere la maggior quantità possibile di sugo, una proprietà che lui ha chiamato “sauceability”;
- potersi prelevare facilmente dal piatto, senza essere necessariamente dei campioni nell’arte di arrotolare gli spaghetti e facendo in modo di evitare quel problema tipico di alcune paste corte, difficilmente infilzabili dalla forchetta, che ha chiamato “forkability”;
- presentare la giusta consistenza e resistenza alla masticazione, anche quando è preparata da un consumatore privo di laurea in “cotturologia al dente”; per descrivere quest’ultima caratteristica un solo termine non bastava, e quindi ne ha inventati addirittura due: la “toothsinkability”, cioè la misura di quanto i denti affondano nella pasta, e il “dynamic contrast”, ovvero la giusta alternanza fra parti molli e dure.
Ha quindi preparato un disegnino, lo ha girato ad un ingegnere esperto in materia di estrusione che gli ha realizzato la trafila necessaria e ha utilizzato le proprie competenze di comunicatore per spiegare alla gente di aver finalmente compreso le sue aspettative e di essere pronto ad offrirle qualcosa che non c’era, semplicemente perché nessuno prima ci aveva pensato.
Un caso da manuale, dunque, che dimostra come anche per le micro-aziende esistano infiniti percorsi per innovare, in modo da mantenere e possibilmente migliorare la redditività del loro business.
Il primo, che in termini di marketing si definisce follow the leader, consiste nell’intuire prima e meglio degli altri qual è il segreto dell’innovazione creata dal leader e come sia possibile in qualche modo copiarla: un verbo di cui magari qualcuno si vergogna, senza rendersi conto che si tratta invece di un’arte molto redditizia, di cui sono maestri soprattutto i popoli orientali, quelli che fotografano qualunque cosa quando sono in giro per il mondo.
Il secondo consiste nella quotidiana attività di miglioramento continuo, che può porsi a sua volta 3 obiettivi diversi: lasciare inalterate le caratteristiche qualitative finali del prodotto, ma apportando continuamente piccole modifiche per ridurre i costi e aumentare la competitività, oppure migliorare leggermente le performance, lasciando inalterati i costi, o ancora puntare ad aumentare sensibilmente la qualità percepita, ma con un incremento marginale dei costi e quindi del prezzo al pubblico.
Per fare questo, la condizione è una sola, e si chiama umiltà: una dote che hanno solo i grandi imprenditori (non per dimensione, ma per apertura mentale), quelli che non presumono mai di essere loro, e soltanto loro gli unici depositari della verità. Questa è la condizione necessaria, ma non è sufficiente, perché per passare dalle idee ai fatti servono anche adeguate competenze tecniche ed organizzative, che spesso latitano nelle aziende più piccole.
Esiste per esempio una tecnica specifica - per la quale gli Americani hanno come al solito inventato un termine azzeccatissimo: il deployment della qualità - che consiste nell’individuare quali sono, nell’ambito di un processo produttivo, i punti critici su cui conviene spendere tempo e soldi per innovare, a partire dalla selezione delle materie prime e fino alle modalità di vendita.
La più semplice ed economica prevede che si crei un gruppo di lavoro in grado di rappresentare la voce del cliente, costituito da persone le quali, oltre a conoscere bene la tipologia di prodotto/servizio di cui si parla ed essere in qualche modo rappresentative dell’universo dei suoi consumatori, devono anche essere in grado di esprimere pareri non condizionati dal loro ruolo. E quindi ovvio che di un gruppo del genere non possono assolutamente far parte persone addette alla produzione o alle vendite, e tantomeno gli azionisti dell’azienda, che non possono per definizione essere neutrali nelle loro valutazioni (che è esattamente l’opposto di quello che loro normalmente pensano).
A queste persone si chiede di fare brainstorming, cioè di elencare liberamente, ognuna in modo autonomo, anonimo e senza censure di alcun tipo, quali sono i requisiti che più di altri incidono sulla loro percezione qualitativa del prodotto/servizio considerato.
Una volta che ognuno ha prodotto il proprio elenco, si passa alla discussione di gruppo, al termine della quale i partecipanti sono guidati a condividere un documento unico, in cui i fattori vengono elencati in ordine di importanza, dando possibilmente un peso numerico ad ognuno di essi ed eliminando quelli che eventualmente nella fase di discussione fossero stati giudicati inconsistenti.
Nella fase successiva entrano in campo i tecnici, i quali analizzano quali sono, lungo tutta la filiera produttiva, le fasi che più di altre possono direttamente o indirettamente condizionare la qualità di ognuno dei requisiti evidenziati dal gruppo di lavoro ed assegnano a loro volta un valore di correlazione ad ognuna di esse.
Una volta individuate quali sono queste fasi critiche (selezione materie prime, magazzinaggio delle stesse, prima trasformazione, seconda trasformazione, gestione dei semilavorati, primo confezionamento, imballaggio, stoccaggio, modalità di trasporto, informazioni al cliente, ecc.), i tecnici, sempre tenendo conto del peso che ognuna di esse potrebbe avere sulla qualità finale, analizzano le singole attività, manuali o impiantistiche, che compongono ogni fase e provano a loro volta a stimare, per ognuna di esse, se la correlazione di ognuna di esse con la qualità percepita dal cliente può essere alta, media o bassa.
Alla fine di questo percorso si ottiene quindi un elenco di priorità su cui l’azienda dovrebbe concentrarsi per migliorare, ogni santo giorno, le proprie performance.
Complicato? No, solo questione di pratica. Come quando ci spiegano un nuovo gioco di carte ma noi cominciamo a capirlo davvero dopo aver giocato un paio di mani, e allora ci appassioniamo e ci rendiamo conto che dobbiamo fare presto ad imparare quali sono i segreti per vincere. L’alternativa è abbandonare il tavolo, che nelle attività commerciali equivale a cambiare mestiere.
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