Pasticceria Napoletana: la proposta legata ai rituali della feste è un limite e nuovi maestri non hanno alcun interesse a tramandare saperi che non hanno

Tommaso Espositomar 16 mar 2021

Dunque, Antonio Lucifero qualche anno fa si è messo a girare tra le pasticcerie della Campania alla ricerca della migliore sfogliatella. Ne ha fatto una compilation personale in cui non brillano stelle né sul lato riccia né su quello frolla. Ha, però, segnato una tappa, insomma.

La settimana scorsa Nunzia Clemente, che da non poco si interessa di dolci e gelati, ha scritto nella sua rubrica L’Inclemente per Foodclub la sua opinione sulla pasticceria napoletana. Qui.

Ci siamo sentiti al volo ci siamo scambiati delle idee. La mia è molto semplice, e sarà, a tappe, approfondita su questo webzine.

Definiamo, innanzitutto, l’oggetto della discussione. Stiamo parlando non dei dolci napoletani in sé, ma dei dolci prodotti nei laboratori bottega del pasticcere.

E anche qui cominciamo dalla tradizione. Ovvio, no?

Diciamo subito che oggi, a ben guardare, la pasticceria napoletana non sembra avere un buon rapporto con la tradizione. Non ha saputo individuarne un percorso identitario di riscoperta e di attualizzazione. Né generale, né particolare.

Un esempio subito per capirci: la rincorsa generalizzata e sovrabbondante (mal riuscita nella sua totalità, tranne in alcuni pochi casi) al Panettone Milanese come proposta sulla tavola di Natale a Napoli e nessun interesse per roccocò, mustacciuoli, paste reali, struffoli, croccante e raffiuoli a cassata.

Ci sono ragioni storiche per cui questo è accaduto.

Basta spulciare, non dico tra i testi classici della cucina napoletana, ma tra gli stessi dizionari del dialetto e cercare nomi e descrizioni dolciarie.

  • Prima ragione. È quella di un rapporto (per restare con i piedi e le radici al Sud) da sempre conflittuale e di soggezione con la pasticceria siciliana che ha ispirato tante creazioni nella cugina napoletana, se non altro per ovvi motivi di comunanza politica nel Regno delle Due Sicilie. Da una parte Palermo con i dolci derivati dagli Arabi e poi con le sue paste e le sue torte barocche arricchite dalla decorazione variopinta dei canditi o esse stesse capolavori di ricami e ghirigori. Dall'altra Napoli con imitazioni decisamente dai toni meno baroccheggianti, più semplici. Confrontiamo una cassata siciliana e una napoletana, un cannolo siciliano e uno napoletano, una cassatella, la minna di Sant'Agata e un raffaiuolo a cassata napoletano. Questo ha determinato di fatto una essenzialità nella proposta napoletana che in un certo senso non l’ha protetta dall’erosione del tempo. Un banco di pasticceria napoletana è stato decisamente meno vario e piuttosto legato alle cadenze calendariali, mentre quello siciliano è stato sempre più variegato e costante durante l'anno, perenne insomma. Voglio dire che a Napoli la proposta dolciaria legata al ritualismo della festa è stato paradossalmente un limite, non una risorsa. L’esempio del Panettone ne è la prova provata.
  • Seconda ragione. La funzione della pasticceria (termine inteso sia come produzione artigianale che bottega o luogo di vendita) è stata sempre legata al bisogno alimentare e nutrizionale oltre che gastronomico. I dolci venivano (oggi è ancora così?) prodotti per la prima colazione, per la merenda o per dare gioia al fine pasto in occasioni particolari (piuttosto che nel giorno feriale soprattutto nel dì di festa: onomastico, compleanno, anniversari, ricorrenze, successi professionali). A Napoli tale funzione, diciamo di bisogno, è stata assolta nel passato a colazione esclusivamente dalla sfogliatella, dal pasticciotto (cicciotto, bocconotto o bucchinotto crema e amarene, crema di ricotta e limone, etc.) dal biscotto all’amarena nato dal riciclo delle paste avanzate, dalla fella ‘e pizza ddoce (la torta a Napoli è stata sempre chiamata “pizza”: pizza cu ‘a crema, crema ‘e marene, cioccolata, ricotta, grano, etc. etc). A fine pasto dalla "guantiera" di paste dolci o dal cartoccio.

Oggi a Napoli si fa colazione generalmente con il cornetto o croissant. La sfogliatella ha un consumo marginale, residuale o esclusivo nei posti cult (lo sono pasticcerie quasi monotematiche come Attanasio e Carraturo ). Per proseguire il parallelismo con Palermo, mi permetto di ricordare che qui la prima colazione è ancora brioscia cû tuppu o brioscia câ còppula con granita di mandorle o gelati vari, poi cannoli, minne etc etc. Il croissant è marginale.

Dal che derivano delle prime sommarie questioni sulle quali rifletteremo.

Se i tratti identitari a Napoli sono deboli e non vengono rafforzati (come è accaduto invece in Puglia con il pasticciotto, mentre a Palermo sopravvivono naturalmente) non c’è necessità di tramandare i saperi.

Fare un croissant non è necessario ormai. Si acquista congelato, si scongela e si cuoce direttamente nel fornetto o nel microonde. Fare una sfogliatella oggi è lo stesso.

Chi vuoi si metta a realizzare un tappo per la riccia la cui lavorazione può impegnare giorni e giorni?

I maestri pasticceri di tradizione napoletana (unica eccezione -non conosco altre, e ammetto segnalazioni- è Sabatino Sirica che non a caso insieme a Vincenzo Peretti qualche anno fa ha tentato di dare vita a una sorta di Accademia della Pasticceria Napoletana) non esistono più, non hanno necessità di esistere, sono soppiantati da assemblatori e cornettari da microonde.

Ovviamente il discorso si estende alla pasticceria da banco.

Dove è possibile mangiare oggi delle paste napoletane degne di nota? Un babà che non sia panzuppa avvolto in una melassa appiccicosa e aromatizzato a tutto tranne che al rum? Una parisienne, una zuppetta a sfoglia, una deliziosa, una testa di moro, una pasta sfoglia alla crema, un cannolo napoletano di sfoglia e crema, un cicciotto al limone.

Una pastiera (unico dolce affrancato dalla ritualità festiva e religiosa della Pasqua) fatta a regola d’arte, a mestiere con uova vere e sentori di fior d’arancio. Con pasta frolla che non sia margarina infarinata?

Insomma, il tema principale è che in assenza di modelli di riferimento tradizionali autorevoli, stanno emergendo improvvisati maestri sedicenti pasticcieri che non hanno alcun interesse a tramandare saperi che non hanno conosciuto e che non possiedono. Tutto sommato basta un po’ di agar agar o di semilavorati, seppure di qualità, e un corso da pasticciere pezzotto per scimmiottare il dessert o il bon bon dello chef stellato.

E quindi...

'affanculo la sfogliatella!

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