Sostenibilità: una parola entrata prepotentemente nel vocabolario degli chef, ma cos'è realmente?

Mirco Scognamigliomar 26 gen 2021

Da tempo, le crescenti diseguaglianze economiche, i cambiamenti climatici, i conflitti, le migrazioni, le catastrofi ambientali, le risorse sempre più scarse e inquinate e, dulcis in fundo, la pandemia da Sars-CoV-2 mettono in discussione il nostro modello di sviluppo.

Si è sempre pensato che per garantire il benessere fosse necessario (e bastasse) puntare sulla crescita a tutti i costi, aumentando la produzione e incentivando il consumo, tralasciando tutti i rischi ambientali e sociali a essi connessi.

Oggi sappiamo che questo modello economico non è più sostenibile e quindi non “durevole” nel tempo. Un ristorante, un’azienda o un ecosistema possono essere definiti sostenibili solo quando hanno in sé la capacità di mantenersi nel tempo (ossia di generazione in generazione) senza perdere le proprie qualità. Sappiamo che per ottenere questo risultato non basta un equilibrio economico, ma occorre prendere in considerazione, gli aspetti sociali e ambientali della propria attività.

Se si consuma troppa acqua, si rischia di non essere più sostenibili nel momento in cui questa risorsa diventerà scarsa e costosa, se non si curano gli interessi dei lavoratori o delle loro famiglie, a lungo andare si può perdere la capacità di attrarre risorse umane di qualità, oltre alla propria reputazione sul mercato.

Quindi la sostenibilità richiede costante attenzione su 4 fronti: etico, economico, ambientale e sociale.

Una sensazione diffusa, ma purtroppo sbagliata, è che esistano sostanzialmente due strade per i ristoranti: essere sostenibili o non esserlo.

La realtà è che essere insostenibili vuol dire non – essere e quindi non è un’opzione, perlomeno se si vuole traguardare un periodo di sopravvivenza che non sia inferiore a quello di una singola generazione.

E’ bene ricordare al riguardo che alla fine degli anni '50 un’azienda media aveva una speranza di vita pari a 60 anni. Oggi è scesa a 18. E’ anche vero che la sopravvivenza di un’azienda dipenda dalla sua capacità di adattarsi al cambiamento. Sicuramente il cambiamento tecnologico ha sconvolto i più, ma non è da meno il cambiamento dovuto all’impatto ambientale, come ad esempio per il comparto dell’olio di palma, della plastica, del diesel o delle lampadine a incandescenza.

Fino a tutto il secolo scorso, l’impatto ambientale delle proprie attività era considerato dalle aziende come un problema abbastanza marginale. La maggior parte dei manager riteneva che fosse sufficiente impegnarsi per restare all’interno dei vincoli di legge. Il più delle volte, quindi, quella della sostenibilità si rivelava una strategia di nicchia, spesso indebolita dal fatto che il consumatore percepiva l’opzione verde come un’alternativa di acquisto penalizzante in termini di qualità.

Questo atteggiamento ha iniziato a cambiare una ventina di anni fa, quando le tematiche ambientali, inserite nel più ampio concetto della responsabilità di impresa, sono diventate per le imprese una questione di “buona” reputazione.

A partire dal 2015, anno in cui è stata organizzata a Milano l’esposizione universale EXPO (Nutrire il pianeta, energia per la vita) e, soprattutto l’ONU ha promosso i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile.

L’impegno verso la sostenibilità non è più considerato come una semplice strategia di posizionamento. Per certi versi non è più neanche una scelta, considerato che ogni azienda è chiamata a inserire tra i suoi parametri di autovalutazione del bilancio anche le tematiche legate all’ambiente e al sociale.

In altre parole oggi essere sostenibili non è più la strada per acquisire un’identità sul mercato, o lo strumento per godere di un’immagine etica. E’ molto di più : è la condizione necessaria per la sopravvivenza stessa del proprio business, soprattutto considerando che è sufficiente un sussulto dell’opinione pubblica, sapientemente diffuso attraverso i media (a partire da quelli social e digitali), per scatenare boicottaggi e accuse di “insostenibilità”, specialmente se risultano evidenti ripercussioni in termine di salute, come è già accaduto in modo piuttosto evidente proprio per l’olio di palma e ora sta succedendo per i pesticidi e la plastica.

Chi ancora si ostina a mantenere un atteggiamento basato sul breve periodo, ancorato a un vecchio modo di interpretare il valore dell’impresa, troppo condizionato dalle questioni finanziare di breve periodo, rischia di vedere vanificati in poco tempo i propri investimenti.

Permangono evidentemente delle notevoli differenze tra aziende che operano nello stesso comparto: alcune si sono impegnate di più e da più tempo, assumendo un atteggiamento proattivo, altre hanno optato per le strategie attendiste, aspettando che fossero le regole del mercato a rendere inevitabile un loro cambio di rotta.

Bibliografia : Il Management dell’Impresa Agrifood – Valentina Della Corte – Università degli Studi di Napoli Federico II

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