Vincenzo Tiri ha cambiato la storia italiana dei grandi lievitati
Qualcuno, tempo fa, disse: ma voi lo sapete che a Potenza sanno fare il panettone?
Si parla molto del prodotto Tiri: che sia panettone, colomba, altri ninnoli lievitati, sono anni che ne sentiamo ormai l’imperante leitmotiv, al punto che c’è timore ad essere ripetitivi. Timore che, ad onor del vero, svanisce non appena ti rendi conto di avere tra le mani quello che è il grande lievitato più compiuto, attualmente, del panorama italiano.
Potrei stare ore a rifilarvi la manfrina della tripla lievitazione, del lievito da uve moscato, dell’arancia… e forse un po’ lo farò. Quello che è necessario dire è che Vincenzo Tiri ha portato avanti la rivoluzione gentile, seppur inesorabile, del panettone tutto l’anno. Rivoluzione compiuta a pieno con l’apertura della Tiri Bakery & Caffè, progetto spesso imitato. Nessuna sovraesposizione, nessuna figaggine imposta dagli uffici stampa; la famiglia Tiri si è proposta (ed imposta poi) al pubblico così com’è, dannatamente lucana.
Più che accaparrarci per improbabili (diciamolo pure: impossibili) riconoscimenti DOP del panettone, dovremmo avere l’elasticità mentale di riconoscere che il grande lievitato delle feste, alias il panettone, è ormai sdoganato e staccato dall’arco temporale in cui nacque, cioè le festività natalizie. La storia dei pani ricchi, prima che del mitologico (?) Pan de Toni si perde nel tempo; erano creati per celebrare le feste ed interrompere i giorni di magro.
Ora, il panettone è una commodity: e meno male, aggiungo io. Le nostre diete sono molto più ricche di carboidrati, di ninnoli e di dolci. Un posto, l’ha dovuto trovare anche il panettone. Pensate: ormai lo mangiamo in diverse fogge tra bauletti farciti ai vari gusti, dolci per San Valentino, festa della mamma e quant’altro. Con i suoi Dolcecuore, Tiri ha creato un trend imitatissimo; con la sua Bakery, altrettanto. In maniera similari a quanto hanno fatto alcuni nostri beniamini per la rivoluzione della pizza, Vincenzo Tiri lo ha fatto per il panettone. E dovremmo riconoscerlo, da Nord a Sud, senza tema di sembrare arroganti o poco patriottici.
(L’Inclemente che è in me già sa che verrà aggredita perché a parere dei neoborbonici io disdegni le pastiere… senza sapere che col mio stipendio speso in pasticceria faccio di sicuro girare l’economia.)
Sarebbe ingiusto parlare di Vincenzo Tiri senza menzionare Alfonso Pepe, l’alfiere del panettone al Sud, colui che lo ha portato con un sorriso nelle nostre case; da Sant’Egidio del Monte Albino, paese che ci vuole un rigo intero per scriverlo, ha iniziato a proporre panettone ai campani quando guardavamo quest’ultimo con lo stesso interesse avuto per un durian, il maleodorante frutto asiatico.
Come per la pizza, non serve un luogo specifico per creare un ottimo panettone; di questo, ne sono fermamente convinta. Serve studio, cultura e sensibilità culinaria. Ma è giusto dare la possibilità a questo antico pezzo d’Italia – insieme alla Calabria, di sicuro il più antico – la possibilità di raccontarsi attraverso persone, luoghi ed idee.
E il bello della cultura è proprio questo; che un minuscolo punto nel nulla come Acerenza possa farsi conoscere così: per un panettone.
LUOGHI
La Basilicata è come una ghiandola: una ghiandola gigantesca, un fegato d’Italia: il paragone non è azzardato perché quella sensazione di melancolia – da melan cholos, l’umore nero che Ippocrate diceva prodotto appunto dal fegato in situazioni in inoppugnabile tristezza – ti circonda mentre ti inoltri e dimentichi strade conosciute e nomi, sgranando rosari di nomi di paesi degni di un libro fantastico: Contursi, Buccino, Sicignano degli Alburni, Altavilla Silentina, Valva, Vietri di Potenza, venendo dalla Campania, dove l’ultimo avamposto davvero conosciuto
Per Acerenza si prosegue ancora per un bel pezzo.
Acerenza è un paese dal nome duro: ha nel dna linguistico la fortezza, l’avamposto; ed infatti a menzionarlo ti viene in mente una sorta di guerriero medievale nella sua corazza. Ha una cattedrale Acerenza, il che la rende una specie di cattedrale d’Italia: come un’ostrica si apre questo paese su un promontorio brullo ed inospitale, come molti luoghi da queste parti: basti ricordare Matera, con le sue case scavate nella pietra o ancora Aliano, dove l’acqua da millenni scava solchi scenografici sulla superficie argillosa. Si ha come se la Basilicata avesse voluto da sempre respingere i suoi stessi coloni; coloni che, con caparbietà, l’hanno abitata ed è stato come se la Lucania-Basilicata, ad un certo punto, si sia del tutto arresa a questa colonizzazione.
Pochi e timidi i tentativi di lanciare i lucani sul jet set nazionale: se qualche film c’è riuscito attirando l’attenzione sulle coste, molto più dovrebbe essere fatto per attirare turismo e conoscenza per un entroterra quasi abbandonato. La Lucania – così come la Calabria, come la Puglia interna, il Cilento, l’Irpinia Orientale – dovrebbero essere compiti morali di ogni cittadino d’Italia e di ogni suo governante. La Lucania è una terra dal duplice destino: uno, che è quello di una regione affacciata su due mari; l’altro, quello delle terre fatte da territori che rispecchiano in pieno l’animo delle persone che vi sono.
PERSONE
Persone quiete, solitarie, di una pazienza quasi esotica per chi viene da luoghi trafficati. I lucani sono persone silenziose, operose, altamente produttive, apparentemente docili, con intelligenza fine ed un attaccamento al proprio territorio che difficilmente trova similitudini.
Tra i lucani molto famosi, c’è stato con Rocco Scotellaro. Contadino, rivoluzionario, poeta: il sindaco bambino lo chiamavano, perché divenne sindaco di Tricarico, paesino ad una cinquantina di chilometri da Acerenza, a soli vent’ anni. La vita non gli sorrise, Scotellaro si spense giovane a Portici, in Campania: molto gli dobbiamo, se la Lucania ha un ricordo vero ed una vera memoria nel resto d’Italia. Molto dobbiamo a lui nel codificare una scienza giovane ma quanto mai necessaria in Italia: la paesologia, passata poi tra le mani dell’intellettuale Franco Arminio. L’arte di andare di piccolo posto in piccolo posto, conoscere persone ed identità, portarle nel resto del mondo. Quante storie perderemmo se non ci fosse la paesologia?
La Lucania è terra di paesologi ed inconsciamente lo sa.
IDEE
Vincenzo Tiri ha un che di normanno, alto e con le sopracciglia aggrottate, estremamente concentrato sul suo lavoro, la voce bassa. Gentile. Porta con sé oltre il nome anche i tratti del nonno, che nel 1957 iniziò l’attività sul cocuzzolo di Acerenza, con il lievito già tramandato da tempo dalle fornaie del paese ed una serie di dolci tipici di questa chiocciola di paese, tra i quali lo sfogliolato, una sorta di pane medievale arricchito con uva candita, zucchero e cannella.
Vi ricorda vagamente qualcosa? Questa è la base di partenza. A tutto ciò, aggiungete la curiosità, la capacità innata da uomo che sussurra e studia i lieviti e la testardaggine della famiglia Tiri, in particolare di Vincenzo. Alla cultura dello sfogliato, si aggiunge il romanticismo del panettone milanese portato ogni anno dalla zia di Vincenzo.
Nessuna fortuna: vi sfido, trovate uno più caparbio di Vincenzo Tiri nel portare il panettone ancora più in là della Campania, dove Alfonso Pepe ha scardinato da vent’anni fa reticenze e malelingue portando la capitale morale del panettone a Sant’Egidio del Monte Albino, un paesino su una trafficatissima strada nazionale.
Sarebbe stato fin troppo facile fare bagaglio ed aprire in territori più proiettati verso il panettone, invece Vincenzo – insieme a Giuseppe, insieme alla sua famiglia – insacca i risultati e li riporta ad Acerenza: un altro destino strano è questo del panettone, destinato ad essere un dolce migrante in un paese molto segnato dall’emigrazione di massa, soprattutto oltreoceano.
Tripla lievitazione, pasta filante ed umida, uvetta, canditi di arancia staccia (un agrume di derivazione araba, popolo che qui approdò intorno al 900), burro d’Oltralpe, tempo. Tutta qui la ricetta? Tutt’altro.
Illustrazione a cura di The Animismus
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