Food cost, la percezione fa tutto: parliamo piuttosto di Break Even Point!
Ettore Vivo, titolare di Soulburgers, ci spiega food cost e Break Even Point
La mia opinione non richiesta su... foodcost!
Prima di tutto mi presento. Sono Ettore Vivo, titolare di Soulburgers piccolissima realtà di ristorazione, operante prevalentemente su furgoni vintage, sia in modalità itinerante che fissa.
Premetto da subito, che la mia non è una storia di successo ma la definirei soprattutto una storia d’amore. Imprenditorialmente, infatti, nasco come farmacista, in una farmacia, appunto, di cui sono titolare da quasi 20 anni. Anche se i due mondi quello del food e delle farmacie, possono apparire molto distanti tra loro, in realtà hanno tantissimi punti in comune, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista gestionale, e forse proprio per questo sono stato invitato a scrivere qualche riga su un argomento “scottante” almeno quanto i nostri fry top, e che è quello del food cost.
Perdonate la premessa, che può sembrare una lungaggine, ma cominciare così credo fosse necessario per introdurre l’argomento. Necessario perché sappiate che chi vi scrive non è nato ristoratore, non ha approcciato all’attività come un imprenditore di ristorazione, non ha fatto uso di consulenti esterni, chef blasonati e non ha seguito regole studiate, almeno quelle strettamente legate alla ristorazione.
Con tutti i pro e i contro quindi, ho affrontato dal primo giorno questo lavoro con amore e rispetto per il cliente, ma soprattutto per i colleghi più bravi e di successo, ricoprendo in Soulburgers tutti i ruoli possibili, dal Piastrista al Social media manager.
Il food cost è stato il primo problema da affrontare quando carico di entusiasmo per i miei menù, mi sono reso conto che queste avevano un costo talmente elevato in partenza da rendere il prezzo finale al pubblico cosi alto da risultare quasi inaccessibile, soprattutto considerando che nel mio caso si parla di panini! Stiamo parlando di un periodo precedente all’apertura, e questa tematica mi ha tenuto sotto scacco per mesi, prima di sfornare il primo Radical Cheese Burger.
La prima cosa da fare, ho pensato, è rispondere alla domanda:
che cos’è Soulburgers? A chi è diretto? Quali secondo te sarebbero i tuoi clienti potenziali?
Può sembrare assurdo, ma a mio avviso il food cost, deve essere strettamente legato al potenziale pubblico a cui ci si rivolge, e quindi direttamente proporzionato alle loro tasche ma soprattutto all’importanza che danno al cibo e al momento in cui lo consumano.
Soulburgers è costruito su un furgone ValksWagen T2 del 1975, spazi ristretti all’osso, ma dannatamente bello ed evocativo, e in qualche modo “arredante”, capace da solo, di abbellire una strada senza essere invadente a livello urbanistico. Questo piccolo fatto, definisce in maniera quasi totalizzante il pubblico a cui è rivolto. Qualcuno a cui piace il bello, qualcuno che è attento alla cura del dettaglio, qualcuno che usualmente non è attratto dai “furgoni di panini”. Questo in altre parole già di per se, definisce la nicchia di mercato a cui il mio progetto si rivolge. Ogni ristoratore ha la sua, ci piaccia o no. Che possa essa essere legata all’esperienza nella sua totalità, fatta di location, servizio e collocazione geografica della propria attività, o semplicemente “cibo-centrica” dove il prodotto offerto è l’unico vero protagonista, ognuno di noi ha la sua nicchia, più o meno grande… l’importante è capirlo, accettarlo e soprattutto attirare persone all’interno di essa con i propri unicum.
Ecco questo semplice discorso, forse già sentito, credo sia un dogma, la madre di tutte le risposte. Sì, perché di solito se non troviamo una risposta è perché ad essere sbagliata è proprio la domanda.
Calcolare i costi, soprattutto quelli della materia prima, può risultare estremamente semplice, se applichiamo la famosa regola del x3 e cioè quella di triplicare semplicemente il prezzo di costo del food, per ottenere un prezzo al pubblico congruo. Ad Onor del vero, su alcune pubblicazioni anche autorevoli, potrete trovare chi consiglia di moltiplicare per 4, ma non è questo il punto.
È giusto in fin dei conti calcolare un prezzo finale partendo dal prezzo di acquisto della materia prima? Semplicemente NO!
Se approcciate solo per un momento, magari non essendo addetti ai lavori, ai costi di produzione di una pizza, ad esempio, vi renderete facilmente conto che il prezzo della materia prima può tranquillamente essere trascurato rispetto ai costi di energia, forza lavoro, gestione e stoccaggio di tutta la catena che porta dalla farina al morso. Discorso diverso invece per una “braceria” dove la materia prima ha costi molto più elevati, ma anche conti “percepiti” già molto diversi. In altre parole in pizzeria ci aspettiamo di spendere almeno 25/30 euro in due (comprese le bevande e magari qualche sfizio) mentre la previsione di spesa di chi va in una braceria sfiora allegramente il doppio se non il triplo. Con la differenza che oggi i pizzaioli e fornai sono agognati come il cartellino di Cristiano Ronaldo (o Victor Osimhen... che dir si voglia).
Un’altra cosa che spesso mi fa sorridere, sono i prodotti decantati credendo che i clienti siano stupidi.
Hamburger di Kobe, filetto di maiale nero, cipolle ramate di Montoro, sono ovunque.. e pensare che prima era tutto limoncello di Sorrento. Non sarebbe il caso, forse, di fare un “downgrade” e smetterla di cercare di attirare con titoli nobiliari, prodotti che sono comunque buoni pur senza il blasone di una provenienza fasulla? Personalmente prima di scegliere il mio hamburger li ho provati TUTTI. Ed anche questo fa parte del food cost. Ha senso nell’economia del morso scegliere un Black Angus piuttosto che una scottona nazionale? Può averne a patto che la ricetta ne esalti il gusto e la palatabilità. Quando lo ho proposto il prezzo al pubblico era di 15 euro per hamburger 200 di Black Angus americano in purezza da solo cuore di reale (di un noto marchio) più cheddar maturo e insalatina con cipolla rossa fresca. Il cliente lo avrà percepito? Chissà.
In altre parole, per l’evoluzione del mondo enogastronomico e soprattutto del suo pubblico, sempre a mio personalissimo parere, le ricette, il gusto finale, il morso, la percezione finale del prodotto, alla fine regolano il food cost.
In tutte le cose il prezzo è legato alla percezione del prodotto finale da parte del pubblico.
Una cosa è acquistare una Tesla, una cosa è acquistare una Ferrari d’epoca, magari dello stesso valore economico. Sono due prodotti diversi che evocano emozioni diverse. Sono due prodotti che invecchiano in maniera diversa. Così come la memoria dei nostri piatti nella testa dei nostri clienti.
Più di food cost in senso stretti quindi, dovremmo parlare di Break Even Point, il fantomatico “punto di pareggio”. Considerando infatti, un locale in affitto di media quadratura, il costo di energia, il costo delle utenze, le tasse sui rifiuti, che sono costi fissi, a cui aggiungere un minimo di personale composto da 3 unità full time, il costo della necessaria pubblicità, il prezzo per alzare la sola serranda ogni giorno può allegramente superare i 500 euro. Ed in alcune città anche il doppio. Su questa base quindi, possiamo ragionare di prezzo al pubblico e di relativo costo delle materie prime, semplicemente facendo finta di “dimenticare” le tasse, e l’iva, in una situazione del genere bisogna incassare una media di 800 euro al giorno solo per pareggiare, per lo 0-0 insomma. Una cifra che può tranquillamente essere raggiunta, per carità, soprattutto considerando che è appunto una media, ma che deve essere per forza di cose presa in considerazione.
Ma quanti clienti dovrò servire per raggiungere quell’obbiettivo? Quella clientela prima di tutto c’è? Esiste?
Un amico qualche anno fa, mollò il suo progetto di tacos, proprio per non aver risposto adeguatamente a queste domande: era capace di sfornare quasi 200 tacos il sabato sera, ma non riusciva a superare i 700 euro di incasso totale, e durante la settimana i numeri non hanno consentito che l’attività continuasse. In questo caso, qualcosa si è inceppato, e probabilmente non era il food cost.
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