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LA CELLA DI FROLLATURA: DOVE IL PESCE ENTRA IN JEANS ED ESCE IN ABITO DA SERA - SUCCEDE AL RICCIO RESTAURANT

Riccio Restaurant, Baia (Na): la frollatura del pesce secondo Agostino Alboretto e Roberta Di Meo

LA CELLA DI FROLLATURA: DOVE IL PESCE ENTRA IN JEANS ED ESCE IN ABITO DA SERA - SUCCEDE AL RICCIO RESTAURANT

RICCIO RESTAURANT

Via Molo di Baia, 47 - Baia-Bacoli
Tel. 081 8688617
Email: [email protected]
Aperto tutte le sere a cena. Chiuso la domenica.
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Succede al Riccio, sul porticciolo Baia. Ma solo a richiesta, in attesa di vincere i pregiudizi sul “pescato del giorno”

LA CELLA DI FROLLATURA: DOVE IL PESCE ENTRA IN JEANS ED ESCE IN ABITO DA SERA - SUCCEDE AL RICCIO RESTAURANT

Il pesce ha 24 virtù, ma dopo pescato comincia a perderne una ogni ora” si diceva un tempo.

Per fargliene perdere il meno possibile, le uniche soluzioni erano allora quelle di essiccarlo con metodi più o meno naturali (stoccafisso), facendosi eventualmente aiutare dalla salagione (baccalà) o dall’affumicatura, specie per pesci grassi o semigrassi, come salmone, aringhe, sgombri, anguille, sardine, spada o tonno.

Poi sono arrivate le tecniche di abbattimento veloce della temperatura, eventualmente combinate col vuoto, che hanno consentito di preservarne per mesi (quasi) tutte le caratteristiche organolettiche e nutrizionali originarie e poi sono diventate addirittura obbligatorie per il pesce servito crudo o anche cotto, quando non si raggiunge per almeno 10’ la temperatura di 60 gradi al cuore, in modo da distruggere il famigerato Anisakis.

Una nuova era è iniziata nel 2016,

quando l’opinione pubblica internazionale ha iniziato a capire davvero che la lotta allo spreco alimentare e la sostenibilità (in particolare quella dei mari e degli oceani) non potevano più rimanere semplici slogan. Avvenne in particolare quando un giovane chef australiano, Josh Niland, aprì a Sidney un ristorantino con annessa pescheria, dove iniziò a sperimentare sul pesce tecniche di frollatura analoghe a quelle tradizionalmente usate per la carne.

Qualche anno dopo Niland raccolse le sue esperienze in un libro, diventato presto un vero best seller, tale da fargli conquistare negli USA il prestigioso premio “Book of the year” e da vederselo tradotto in mezzo mondo. In Italia ci ha pensato Giunti, col titolo “Il grande libro del pesce. Nuovi modi per cucinarlo, mangiarlo e pensarlo”.

Non è facile spiegare compiutamente, in poche parole, cosa accade durante la frollatura di un pesce.

L’effetto più evidente che si ottiene è che le fibre muscolari del pesce, irrigiditesi durante e dopo la pesca, in condizioni di temperatura e umidità rigorosamente monitorate si rilassano e si asciugano progressivamente. Si perde così un 20/30% del peso originario, ma la carne non si secca e dà luogo invece a una texture più compatta, cremosa all’interno e croccante verso l’esterno.

Grazie al contributo fondamentale degli enzimi naturali, le carni tendono ad imbrunire un po’, mentre le proteine rilasciano gli aminoacidi che le compongono, i quali vengono in parte trasformati in nuove e sorprendenti sostanze aromatiche, molto simili a quelle caratteristiche delle reazioni di Maillard che si producono durante la maturazione dei salumi. Ma con una differenza fondamentale: che in questo caso tutto avviene senza far ricorso a ingredienti esterni di alcun tipo.

La prima condizione necessaria per una frollatura a regola d’arte consiste (come sempre) nella selezione della materia prima,

che deve essere ovviamente freschissima, e nella conoscenza del metodo di cattura utilizzato, in modo da tenere debito conto anche dello stress subito dal pesce.

La seconda è una scrupolosa pulizia,

con la preventiva eliminazione di tutte le parti molli (occhi, squame, visceri, branchie, uova, sangue residuo e il resto del cosiddetto “quinto quarto”: tutti ingredienti perfettamente recuperabili nella preparazione di fondi) e con la successiva eliminazione dell’umidità in eccesso, utilizzando un panno di cotone o della carta di riso.

La terza è il continuo monitoraggio delle condizioni di processo:

non solo quelle di temperatura e umidità ma anche del pH (l’acidità), allo scopo di prevenire l’insorgenza di pericolose proliferazioni batteriche, come quelle che potrebbero insorgere in presenza di ghiaccio o di ristagni d’acqua.

Malgrado la diffidenza di gran parte del pubblico italiano rispetto all’idea

di consumare pesce dichiaratamente “vecchio”, molti chef nostrani, famosi proprio per i loro piatti di pesce (fra cui Moreno Cedroni a Senigallia, Lele Usai a Fiumicino e Luigi Pomata a Cagliari), hanno iniziato ad appassionarsi a questa tecnica, con risultati molto interessanti: ottimizzazione degli approvvigionamenti (specie per gli esemplari di grandi dimensioni), riduzione al minimo degli sfridi e soprattutto miglioramento della qualità e intensità organolettica e della struttura delle carni, oltre ai vantaggi ottenibili nell’accorciare e semplificare le modalità di cottura del pesce.

Stupisce ora positivamente l’intraprendenza di qualche giovane e promettente chef

che, proprio in quell’area napoletana dove la tradizione pretende che il pesce servito in un locale di qualità non possa che essere freschissimo (se proprio non si riesce a metterlo in pentola mentre è ancora vivo), inizi ad approfondire queste tecniche, e con risultati già molto incoraggianti. A maggior ragione se quel ristorante è posizionato proprio davanti al mare, dove è più improbabile che il paesaggio che hanno davanti e l’aria salsa che respirano inducano i clienti a sperimentare una innovazione come questa, se non ne hanno mai sentito parlare prima.

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Riccio Restaurant - sala esterna

È quello che succede invece al Riccio, sul porticciolo di Baia,

un locale che il patron Salvatore Di Meo, storico professionista dell’ospitalità e della ristorazione flegrea, è riuscito a far diventare in pochi anni una meta fra le più apprezzate tra gli appassionati di cucina marinaresca: sia per la non comune qualità delle materie prime utilizzate, spesso servite crude, sia per la meticolosa attenzione posta nelle preparazioni culinarie, sia nel servizio, affidato alla professionalità della maître sommelier Roberta, figlia di Salvatore, la quale ha oltre tutto alle spalle una cantina di tutto rispetto.

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Riccio Restaurant - Roberta Di Meo e Agostino Alboretto

Il primo protagonista di questa sfida è lo chef Agostino Alboretto,

uno di quegli encomiabili trentenni che non si sentono mai soddisfatti per quanto sanno e hanno già realizzato, ma sono anzi sufficientemente folli e preparati per mettersi in gioco con nuove sfide.

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Riccio Restaurant - Agostino Alboretto, lo chef

Lo chef ci spiega quanto sia fondamentale definire temperatura e umidità a seconda delle condizioni ambientali esterne, della pezzatura, della compattezza delle carni e del contenuto di grassi del pesce, per fare in modo che il processo di asciugatura avvenga in maniera omogenea e progressiva. In linea orientativa, la temperatura sarà di 0°-3° e l’umidità del 60-70%, avendo cura che il pH non scenda mai al di sotto di 6 e che, quando il pesce è appeso nella celletta di frollatura, si eviti accuratamente ogni contatto fra i diversi esemplari in maturazione.

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Riccio Restaurant - lo chef Agostino Alboretto alla cella tranci
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Riccio Restaurant - celletta frollatura

Non c’è un tempo standard di maturazione, che può essere anche di pochi giorni, ma che per una grande cernia può arrivare anche ai 40 giorni. Per il tonno si arriva a 3-4 settimane, mentre per i dentici, le ricciole, i polpi e i grandi pagelli possono essere già sufficienti una decina di giorni.

Agostino ci racconta anche che usa esclusivamente pesce locale, perché solo così può conoscerne la storia e soprattutto il metodo di cattura, e quindi evita per principio il salmone.

Una affermazione che ce lo rende ancora più simpatico e credibile,

considerato quanto questo sfortunato pesce abbia ormai inflazionato le nostre tavole con le sue flaccide carni colorate artificialmente, allevate con i brutali e anti-ecologici metodi in uso nei mari del Nord Europa. E ci spiega infine anche i vantaggi che il pesce frollato presenta quando deve essere eventualmente cotto, grazie alla morbida compattezza delle carni, che non lo fa sfaldare e previene arricciature in padella, garantendo così anche una più omogenea penetrazione del calore.

Arriva finalmente l’ora di passare dalle parole ai fatti,

per verificare quanto e come, oltre agli ovvi benefici in termini di prevenzione dello spreco e di sostenibilità ambientale, questa tecnica incida sul risultato finale, una volta che il prodotto arriva in tavola.

Il ristorante non ha ancora inserito queste pietanze nel proprio menu, e quindi le offre solo a chi, come nel nostro caso, se ne mostra realmente interessato. Chiediamo allora allo chef di metterci nella miglior condizione possibile per farci apprezzare le differenze fra due pesci il più possibile simili tra loro, preparati allo stesso modo: uno fresco di giornata e uno frollato. Lui ci pensa un attimo, non fa una piega e va in cucina ad organizzarsi, proponendoci intanto un percorso rappresentativo del suo lavoro.

Arriva quindi a tavola un tagliere di affettati,

consistente in un delicato capocollo di cernia, leggermente affumicato e poi stagionato, una ventresca di tonno resa incredibilmente cremosa attraverso una frollatura per 30 giorni, una saporita salamella di ricciola maturata per una ventina di giorni e una inusuale tracina speziata con erbe mediterranee con appena 5 giorni di maturazione, data la piccola taglia.

Non può esistere metodo migliore per capire l’enorme differenza che esiste fra gli insipidi prodotti industriali, disidratati artificialmente in armadi di essiccazione, e quelli di un artigiano che della materia prima che lavora conosce vita, morte e miracoli e sa come trattarla per esaltarne tutti i pregi.

LA CELLA DI FROLLATURA: DOVE IL PESCE ENTRA IN JEANS ED ESCE IN ABITO DA SERA - SUCCEDE AL RICCIO RESTAURANT
Riccio Restaurant - tagliere insaccati

Dopo qualche fragrante antipasto di pesce fresco,

come per esempio un eccellente pesce bandiera croccante, pregevolmente contrastato da un contorno di tipici peperoncini verdi napoletani (quelli che altrove chiamano “friggitelli”; ma non da queste parti, per non confonderli con i broccoli friarielli),

è la volta di un semplice ma gustoso gnocchetto acqua e farina, mantecato con frutti di mare sgusciati, gamberetti e polvere di alghe,

una bella sintesi di quella interpretazione elegante della cucina flegrea che ha già reso popolare il Riccio da queste parti, e non solo.

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Riccio Restaurant - gnocchetto con frutti di mare sgusciati, gamberetti e polvere di alghe

Arriva così il momento-clou della cena.

Poiché aveva a disposizione in cella una lampuga di 12 kg, frollata per 8 giorni, e in cucina una di 6 kg pescata al mattino, per consentirci di confrontare al meglio le differenze lo chef decide di tagliarne due tranci dello stesso peso, di scottarli nel modo più semplice possibile e servirli nello stesso piatto.

Il risultato è davvero sorprendente, di quelli che davvero non lasciano spazio ai dubbi e cancellano i pregiudizi, a maggior ragione se si considera che la specie ittica in esame non è certo una di quelle considerate di maggior pregio fra i pesci mediterranei.

Il prodotto frollato - seppure solo per pochi giorni, come in questo caso - presenta una crosta piacevolmente croccante ma non untuosa, che fa da contrasto a una carne morbida e compatta. L’effetto più inatteso, seppure in presenza di una minor quantità di succhi, è un gusto molto più intenso che nel pesce appena pescato, in cui si percepiscono non solo (e molto più concentrati) gli aromi caratteristici dello specifico pesce, ma una serie di nuovi aromi, prodotti dalla trasformazione enzimatica subita da alcuni degli aminoacidi.

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Riccio Restaurant - lampuga, polpa
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Riccio Restaurant - lampuga, crosta

Con la lampuga è lampante la similitudine con la favola di Cenerentola,

la ragazzina già graziosa nei suoi stracci da sguattera che la carrozza e gli abiti della Fata Smemorina riescono a trasformare d’incanto in una seducente principessa, in grado di ammaliare chiunque con la sua classe.

Fino a oggi, per spiegare cosa sia in realtà l’umami,

il misterioso quinto gusto percepito dalle nostre papille in aggiunta a dolce, salato, amaro e aspro, si è usato quasi sempre il riferimento al glutammato di sodio, quel micidiale “esaltatore di sapidità” di cui in passato abbiamo fatto grandi abbuffate attraverso i dadi per brodo comunemente usati in cucina, oggi addirittura vietato, per prudenza, nell’alimentazione dei bambini.

Da oggi mi pare ci sia un modo migliore per definirlo:

l’umami è quel meraviglioso complesso di aromi che si ottiene quando si sa frollare con passione e competenza un pesce freschissimo.

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