San Giovanni nella tradizione popolare, dai riti alla tavola.
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Di Nino Leone
Il 24 giugno, solstizio d'estate e per la tradizione cristiana ricorrenza di San Giovanni Battista, è sempre stata nottata e giornata, particolare. Fin dai tempi più antichi, alla ricorrenza si sono dedicati riti e manifestazioni in ogni paese, festeggiamenti pubblici e privati, divinazioni, fuochi, cresime di massa e nocino. E per secoli, San Giovanni ha mostrare di gradire. Imperturbatamente
Gradevole sorpresa arrivare a Modena e scoprire anche lì, un consolidata devozione verso il liquore di noci. Anche lì, alcune farmacie del centro, come da noi antichi coloniali di città campane - negozi che ancora sentono di vaniglia e cannella - continuano, a dispetto delle più moderne tecniche, a preparare con certosina pazienza la ricetta dell’infuso pestando gli ingredienti in tintinnanti mortai di bronzo.
Per un buon nocino, è d’obbligo perpetuarne il rito e annesse liturgie, benché prima o poi saranno per forza di cose dismesse.
La levata è prima delle cinque, immersi nell’odore fortissimo di stoppie secche e nel fresco del “pasteno” delle noci, col sole radente sulle foglie, magicamente trasformabili, con un facile intreccio degli steli, in un ampio cappello. Ventitré teneri malli di noci nuove, tanti ne occorrono per insaporire un buon litro di spirito, ma nessuno ci giuri sul numero: la diversità antropologica italiana dice pure ventisette. Sembrano pochi, eppure non cadono così velocemente nel sacco come si crederebbe: bisogna saltare, abbrancare, sfrascare e, se possibile, non arrecare troppo danno alla pianta né ad altre colture.
Solo così per mezzogiorno potranno finire a tranci nell’alcool a consumarsi per quaranta giorni scaricando, tra iodio e sole, una mistura capace di annerire San Giovanni, anima e barba. Eh già, sarà l’autunno ad amalgamare la volatilità dell’alcool con le fragranze di chiodi di garofano e cannella, zucchero e caffeina. Ci penserà infine l’inverno a far scendere di livello la bottiglia e, una volta svuotata, rimpiangere l’infuso dell’anno prima, e meglio sperare in quello prossimo.
Fino a ieri, per questa notte, era tradizione mettere «alla serena», cioè all’umido della notte, anche una brocca di vetro colma d’acqua; dentro vi si versava del bianco d’uovo o del piombo fuso. Di mattina, il primo pensiero - e chi avrebbe potuto impedirlo? - andava alla caraffa trasparente: tutti di corsa, a spiare il risultato.
E, quell’ieri era un tempo senza troppi mezzi di comunicazione, soprattutto senza i ripetuti fotoromanzi della televisione e poiché gli uomini non sanno vivere senza storie, ci furono tempi in cui ognuno se le fabbricava con i media che poteva.
Ne correvano di avventure, col naso schiacciato contro il vetro delle giare barocche, e speranze di afferrare con l’ingenuità di uno sguardo, in un battito di ciglia, il fascino o l’ombra dell’insondabile mistero che attraversava la mente: un allontanamento in territori odisseici, persi dietro sartie e vele che l’albume, all’insaputa di tutti ma con l’aiuto di San Giovanni, aveva saputo intrecciare durante la notte. Su quella barca sfuocata, varata senza spumante e senza un nome, se ne andavano i sogni di molti, grandi e piccoli, e a seconda di chi leggeva, si lenivano passioni, si sopivano angosce: il figlio militare, la figlia emigrata in Argentina, il fidanzato che la penultima di casa, la malandrina, tarda a trovare e la bonafficiata mancata per un numero che non arricchirà il corredo.
Riti semplici ma carichi di significati: “velinie d'uovo e chiummo”, come fossero pagine di Stevenson, con quei vascelli perduti in brume e foschie dell’inesplorato nuovo mondo, tenendo la prua a ovest, ma se dovessimo volgerla a est, potremmo chiederci com’è per noi misconosciuto "divinare" il piombo, così come ancora oggi si fa con la posa del caffè in area ottomana dopo ogni sorseggiata di havè. Grumi e vortici, tempeste e bonacce entro cui sembrano agitarsi le vele sospese dal nostro Battista, cumpare 'e Gesù Cristo.
Liturgie per insegnare, a chi era piccolo e senza esperienze del mondo, a riflettere e interrogarsi sul futuro, a prendervi confidenza, a pensare al domani come a un lungo, possibile, sopportabile sogno, arrivando a sdrammatizzare le ambasce della vita affidate alle vele del tempo e, perché no, alla protezione del Santo...
Eppure la cosa non sempre è stata proficua.
C’è stato un periodo nella storia di Napoli in cui per questa giornata si organizzavano in città grandi festeggiamenti con fervida e massiccia partecipazione popolare, come sempre si è contraddistinto lo spirito partenopeo.
Al tempo in cui la città era amministrata da Piazze e Sedili, l'Eletto del Popolo indiceva a nome del “sieggio pittato”, espressione appropriatamente colorata per indicare il Sedile del Popolo, una grande festa ricca di cibarie e celebrazioni, con carri allegorici e ingegnosi altari cittadini, e riceveva in pompa magna il viceré «come in propria dimora». Cavalcando al suo fianco, insieme a lui visitava gli «istraordinari e magnifici apparati», le allegorie delle quattro stagioni. «Alle piazza Larga vi era un giardino con fiori e fontane che rappresentava la primavera; alla Sellaria un palazzo con giardino, con frutta e peschiera per l'estate; al Pendino, per la vendemmia vi erano uomini in veste di vendemmiatori che motteggiavano le dame di passaggio: erano la raffigurazione dell'autunno, mentre per l'inverno vi erano alla porta del Vino macellai che facevano vista di uccidere maiali e fabbricare salsicce».
Sotto i moti, durante la visita del duca di Medina alla festa approntata «dall'eletto Nauclerio con più solenne apparato del solito, per dare a vedere che il popolo della città stava pago e contento del governo del duca», nel mezzo della parata, il viceré a cavallo, la viceregina in seggetta, si scatenò un temporale di tale violenza che tornarono a palazzo inzuppati fradici. Per la stessa festa, ogni sei anni si ergeva un catafalco a memoria dell'antico sedile del popolo fatto distruggere dagli aragonesi. Anche questa era un'occasione per giostre, giuochi «di lance all'anello» e grandi tavolate in cui «i cuochi spiumavano oche, scannavano maiali, scorticavano capretti, lardellavano arrosti, schiumavano pentole, battevano polpette, imbottivano capponi e facevano mille bocconi ghiotti».
Non c’è verso: inevitabilmente, ogni festa ha il suo culmine con ragù e polpette!