Storytelling: valore, plusvalore e presa per il cu*o
Un punto di vista sullo storytelling: istruire il consumatore vuol dire praticare onestà
Nell’attuale contesto di ricerca di una gastronomia la cui estetica rappresenta il melting pot in cui si fondono cultura e goduria, lo storytelling diventa arma fondamentale per aggiungere un valore della maschera, della forma, al valore privato proprio del significato stesso del prodotto. Uno strumento che nelle giuste mani è in grado di vendere un paio di occhiali da vista ad un cieco, un paio di scarpini da calcio ad uno storpio; una promessa di felicità che si distacca totalmente dal prodotto ed aggiunge ad esso significato riuscendo a cambiare drasticamente anche la risonanza del suo significante.
Ad esempio “caviale”, una parola che da sola ha un significato ben preciso, ha un valore ben preciso: si tratta di uova di pesce, per essere precisi di storione, nulla di più nulla di meno. Sebbene abbia una propria complessità aromatica che lo rende un prodotto unico nel suo genere non sarebbe riuscito ad avere l’appeal che conosciamo nel mercato del lusso senza che ne fossero raccontati i processi, la storia, il lavoro ed il tempo che ad esso viene dedicato per la produzione. Ed è su quest’ultimo effimero concetto, il tempo, che si fonda la maggior parte del valore percepito.
Il tempo è valore, nella concezione capitalistica di Marx, il tempo è misura del valore di una merce, oltre ad essere misura del capitale variabile necessario a pagare i lavoratori. Marx inoltre distingue due momenti ben precisi nel tempo di lavoro ad una merce. Un primo tempo ∆t1 necessario alla produzione vera e propria ed un secondo tempo ∆t2 in cui il risultato del lavoro è un plusvalore della merce. È proprio in questo tempo ∆t2 che si plasma lo storytelling del prodotto, un plusvalore della merce non tangibile ma che se raccontato con i giusti mezzi aumenta esponenzialmente il valore percepito e l’estetica stessa della merce; valore, quello estetico, considerato solo successivamente da Walter Benjamin ma non da Marx.
Tra vini che hanno oltre cinquant’anni, carni frollate cinquecento giorni, riso invecchiato sette anni, il consumatore tende sempre ad attribuire un valore aggiunto a questi prodotti, valore che in parte è tangibile, perché dovuto a concreti attributi in termini di costi di stoccaggio delle merci, calo peso delle carni e rischi vari da considerare nel processo di invecchiamento, in parte perché prodotto da astrazioni di livello più alto che colpiscono nel profondo l’immaginario collettivo: vecchio è buono.
Ed è così che in questo tempo di invecchiamento si creano i presupposti per il racconto, per la magia o in alcuni casi, neanche troppo rari, per la presa per il culo.
Ma il tempo è solo uno degli aspetti sui quali poter raccontare verità, mezze verità, inganni al consumatore.
Secondo uno studio del 2014 del MAPP Centre for Research on Customer Relations in the Food Sector dell’Università di Aarhus dal titolo Delicious words – Assessing the impact of short storytelling messages on consumer preferences for variations of a new processed meat product, emerge un aumento esponenziale di nuovi prodotti posizionati in termini di origine, ingredienti e processo produttivo in risposta ad un sempre maggior interesse da parte del consumatore di prodotti che siano autentici, salutari, naturali e gustosi.
Quattro parole chiave o se vogliamo quattro diverse chiavi di lettura che se raccontate a dovere possono spingere il consumatore ad acquistare un prodotto a prezzi ben più alti delle sue capacità di spesa.
Per farla breve, ad un set di assaggiatori è stato somministrato un nuovo prodotto a base di prosciutto senza nessuna ulteriore spiegazione, ad altri è stato presentato lo stesso prodotto raccontandolo in termini di sicurezza alimentare, ridotto contenuto di sale ed utilizzo di erbe con effetto antimicrobico come conservante naturale. L’indice di gradimento nel secondo set di assaggiatori è stato notevolmente superiore al primo, portando alla conclusione che un breve storytelling, che lasci trasparire i termini “salute” e “naturale”, aiuti il consumatore a superare il disinteresse per un nuovo prodotto e al contrario lo avvicini ad esso con maggiore curiosità.
Un mezzo quindi necessario a superare la neofobia, la paura del nuovo, di ciò che non conosciamo o che per pregiudizio giudichiamo in un certo modo senza dargli una concreta opportunità. Uno strumento sì necessario ma al contempo, per un consumatore poco attento, uno strumento che può rappresentare un vero e proprio inganno o, per essere più diretti, una vera e propria presa per il culo.
La luce della speranza
È da qualche anno che Giuliano Baldessarri, chef di Aqua Crua, ristorante una stella Michelin a Barbarano Vicentino, crea lievitati innovativi con una caratteristica ben precisa: l’utilizzo della rugiada nel rifresco del lievito madre. E non una rugiada qualsiasi, bensì quella raccolta, personalmente dalle sapienti mani dello chef, la notte di San Giovanni sulle montagne trentine, non un giorno prima, non un giorno dopo, quella precisa notte. Per non si sa di preciso quali inflessioni astrologiche che neanche Paolo Fox sarebbe in grado di spiegare, pare che, secondo un antico rito celtico, la rugiada raccolta la notte di San Giovanni avesse proprietà miracolose: mecojoni! E quindi? A cosa serve quest’acqua miracolosa nel lievito madre utilizzato per creare panettoni e colombe? La risposta è piuttosto semplice: a nulla.
Ecco, ora, ipotizzare che le famiglie di lieviti e batteri presenti nella rugiada possano in qualche modo influenzare la struttura dei nostri lievitati, diventare predominanti all’interno del lievito madre e resistere ai successivi rinfreschi fatti con farina, quindi grano, quindi altri microrganismi il cui obiettivo è quello di sopravvivere e riprodursi, è di per sé irrazionale.
Sta di fatto che lo chef Baldessarri ha fatto non poco parlare di sé con questa scelta stilistica, quindi chapeau.
Percezione tattile
Siamo in Campania, più precisamente nella provincia di Caserta e nello specifico nel piccolo borgo di Caiazzo. Qui un pizzaiolo lungimirante che voi tutti conoscerete bene, Franco Pepe, circa dieci anni fa decide di staccarsi, seppur rispettandola, dalla tradizione e creare il suo concetto di pizza che per anni è stata considerata una delle migliori, se non la migliore, al mondo. C’è solo un problema però: l’impasto a mano. Concetto sul quale si fonda l’intero storytelling di “Pepe in Grani” tanto da diventare un vero e proprio marchio di fabbrica al quale è possibile assistere durante la cena tramite appositi pannelli di vetro posti sul pavimento che permettono la visione della lavorazione degli impasti.
“Impasto ancora oggi a mano perché ho bisogno di sentire con le mani quando è pronto. Non basta unire insieme degli ingredienti, anche se di qualità. La pasta va sentita, annusata, assimilata”.
Ipotizziamo ora di fare a mano l’impasto per circa mille panetti.
Risultato atteso: un impasto fragrante all’interno del quale è possibile percepire la cura ed il raggiungimento della consistenza ottimale attraverso la percezione tattile delle mani utilizzate come strumento di misura.
Risultato ottenuto: una bustina di antidolorifico per placare il mal di schiena.
Nessuna evidenza scientifica è in grado di dimostrare la maggiore qualità di un impasto fatto a mano rispetto ad uno ottenuto in macchina che, al contrario, permette un più efficace sviluppo della maglia glutinica.
Cosa rappresenta però agli occhi del consumatore questo aspetto?
Come abbiamo anticipato prima questo plusvalore che il pizzaiolo intende aggiungere al suo prodotto si scompone in due parti: una prima parte tangibile, composta dalla manodopera che necessita di impiegati specializzati e si trasforma quindi in maggior costo di produzione, ed un’altra intangibile in cui il richiamo all’utilizzo delle mani, o meglio, al non utilizzo della tecnologia concorre alla formazione di un concetto di “naturale” e di “autentico” del prodotto, percepito quindi di maggiore qualità da parte di chi lo assaggia.
La chimica: ricordati che devi morire
Il caso che vi sto per presentare è solo uno degli innumerevoli che, per i motivi descritti prima, condannano la chimica ancora oggi come il male più assoluto. Siamo all’incirca nel 2012 e nelle gelaterie Grom sui muri possiamo leggere una frase molto chiara e netta “Grom non utilizza coloranti, aromi, conservanti e additivi chimici. Non lo abbiamo mai fatto, non lo faremo mai”. Ma cosa vuol dire che non contiene additivi chimici? Leggendo le etichette di Grom possiamo trovare, a seconda del gusto del gelato, per metodi produttivi evidentemente diversi, l’aggiunta di farina di carrube, gomma di guar, pectine, rispettivamente E410, E412 ed E440. Cosa vuol dire che questi additivi non sono chimici? Che sono forse privi di molecole?
Dal punto di vista scientifico, affermare che non siano presenti additivi chimici è una frase priva di ogni fondamento.
È solo una mera strumentalizzazione della paura del consumatore che lo conduce a farsi un’idea negativa della chimica, aumentando l’ostilità nei confronti della materia. Tutto è chimica, che siano prodotti di origine naturale o di sintesi, e citando Bressanini: le proprietà di una sostanza non dipendono dal fatto che si trovi in natura o sia stata sintetizzata in laboratorio, quindi specificare l’origine di una determinata molecola non fornisce alcuna informazione
Tutto è chimica in quanto tutto è formato da molecole, molecole che in particolari condizioni possono a loro volta reagire con altre molecole per crearne di nuove. L’obiettivo della campagna è chiaramente quello di rivolgere l’attenzione del consumatore verso il concetto di naturale, parola che, come abbiamo visto, risulta essere la chiave di lettura del consumatore moderno.
L’intenzione è però quella di sensibilizzare l’auditorio ad un tema ben preciso, l’onestà.
Il tema indagato in questo articolo non intende in alcun modo lasciar trasparire una critica nei confronti dei produttori citati, né tantomeno nei confronti dei loro prodotti ed in alcun modo intende sminuire il valore dello storytelling che, come anticipato, è uno strumento necessario alla creazione di valore.
Il consumatore moderno è sempre più informato, istruito, i mezzi con i quali può accedere alle informazioni sono sempre di più e sempre più rapidi. Diventa quindi fondamentale cambiare registro comunicativo per mantenere una propria credibilità sul mercato prima che questa venga facilmente distrutta da affermazioni superficiali, prive di fondamenti e soprattutto che possano generare sfiducia nei confronti di chi le legge, le osserva, le ascolta.
PhotoCredit: Pixabay
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