Domenico Iavarone: "ci hanno tolto la libertà di esprimerci"
Solo qualche ora prima della decisione di De Luca di lasciare la Campania in zona arancione, il Governo centrale si era finalmente pronunciato sui provvedimenti e sulle disposizione delle prossime due settimane. Una situazione che aveva già creato fin troppi disagi perché da quella che a loro sembrava una decisione da prendere in qualunque momento, dipendevano decine di migliaia di attività e, di conseguenza, centinaia di migliaia di persone, di imprenditori, di lavoratori.
Certo, non siamo così grulli da credere che queste cose non siano note: è impossibile pensare che non sia stato messo in conto il malcontento, la possibilità di potersi organizzare perché un ristorante non si riapre dalla sera alla mattina, l'occasione di smuovere un po' le acque e di tornare ad una piccola normalità (anche se di soli tre giorni) che potesse dare una boccata di ossigeno a tutta la filiera. Nonostante l'evidente "tattica" dello Stato di temporeggiare al fine di concedere un via libera alle attività senza però dargli le giuste condizioni per avviarsi, ristoranti e ristoratori hanno tenuto batta e aggrappandosi alla speranza hanno iniziato a mettersi in moto per farsi trovare pronti. Ed in pochi minuti dalla firma del decreto era tutto confermato e innescato: forniture, spese varie ed eventuali, organizzazione linea, comunicazioni sui vari social. Vi pare niente? Pensate alle tasche ed all'animo che si sono sentite derubate dell'ulteriore investimento quando in Campania, qualche ora dopo, il governatore ha deciso di pronunciarsi a sfavore della zona gialla decretando che la regione in questione sarebbe rimasta in zona arancione.
Pur adattandosi ad asporto e delivery, chi si sente privato della propria identità è la ristorazione di alto standard che non può esprimere il proprio essere nè valorizzare la accurata scelta della materia prima o lo studio e la ricerca dietro piatti che hanno bisogno di temperature, consistenze e necessitano dell'atmosfera per completare l'esperienza.
Ho raccolto il punto di vista di Domenico Iavarone, chef del Josè Restaurant di Villa Guerra.
Dopo essersi fatto le ossa tra Gennarino Esposito a Vico Equense e Oliver Glowing ad Anacapri, a seguito di una esperienza al Maxi di Capo La Gala. Domenico Iavarone approda a Torre del Greco sposando un progetto familiare che ha come scopo avvicinare i clienti del territorio stesso facendoli sentore a casa grazie alla sua cucina morbida, intelligente e di esaltazione delle materie prime.
Domenico è uno chef sicuro e attento e soprattutto un uomo pratico e di carattere che ha portato in cucina non solo la sua formazione ma anche l'essenza dei suoi ricordi, facendo sì che la sacralità della tradizione e del territorio invadessero le idee innovative dei suoi piatti. Tutto ciò lo ha reso protagonista di una cucina coinvolgente che innesca un circolo virtuoso nelle sue creazioni e ancor di più in chi li gusta.
Come stai vivendo questo clima di indecisione?
Io sinceramente parto da un presupposto: il rispetto delle regole. L'emergenza c’è, esiste e le norme vanno seguite, per rispetto a tutte quelle persone che non ce l’hanno fatta e per chi si è impegnato quotidianamente nel salvare vite umane. Quello che non mi trova d’accordo sono le restrizioni che sono andate a penalizzare il settore ristorativo -come quello che mi appartiene- in modo così brusco e senza dar peso a quello che è il nostro lavoro. Combattiamo tutti i giorni per avvicinare le persone alle nostre strutture ed essendo in provincia non è così semplice. Questo modo di affrontare la situazione non fa altro che allontanare tutti.
La questione della geolocalizzazione è un tasto amaro, quanto vi ha svantaggiati e demoralizzati nelle scelte?
Nonostante tutto credo che noi in provincia possiamo considerarci avvantaggiati perché non siamo stati colpiti da alti flussi. Io sono stato tra i fortunati anche in senso logistico perché avendo degli spazi esterni molto ampi ho potuto sfruttare a 360 gradi anche nuovi format ma sempre di altissima qualità, sia per ospiti abituali che per i nuovi avventori.
Come è stato dover cambiare le proprie abitudini, la disposizione del tempo in cucina?
Per fortuna io sono dotato di un grande spirito di adattamento. Il fatto di poter lavorare solo a pranzo o le restrizioni sugli orari di chiusura ha rieducato anche le persone (e soprattutto noi campani) ad essere più predisposti ad una cena (nel caso fosse fattibile) in un orario più consono. Così, la stessa rimodulazione di quella che è fondamentalmente una abitudine nostra, ha avuto un peso specifico anche nella ideazione da parte nostra di una formula che fosse più smart a pranzo. Il fatturato annuo di una azienda come la nostra, ma del resto come di tutte le aziende di questo tipo, è per il 75% attribuibile alla cena. Quasi spontaneamente, anzi direi inconsciamente, è stato quindi opportuno effettuare un ammortizzamento dei costi: da uomo di azienda, la mia responsabilità mi ha portato ad attuare tagli sul personale e sia ben chiaro mai con licenziamenti bensì con turnazioni che permettessero a tutti di lavorare senza sentirsi in panchina.
Il Josè Restaurant è un esempio virtuoso di come la ristorazione ha risposto ai vari provvedimenti in un susseguirsi di DPCM che cambiava le regole del gioco in corsa e repentinamente. Come ci si sente oggi, sapendo che nonostante gli investimenti fatti con "casse vuote" non sono serviti a nulla e pare che siate l'unico comparto colpevole della diffusione del virus?
Da questo punto di vista nasce tutto il male della cattiva gestione (a mio parere) per quanto riguarda quello che è il settore ristorativo. Noi che siamo sempre stati ferrei sulle normative, rispettando le regole alla lettera dalla prenotazione fino all’arrivo al ristorante del cliente, con investimenti fatti in impiantistiche di ozono all'interno della struttura, con sanificanti, con il distanziamento dei tavoli che da noi c’è sempre stato ma siamo stati ancor più accurati proprio per dare la sensazione di tutela e tranquillità e che insieme alla riduzione dei coperti sono state attuate per dare ancor più sicurezza. Noi ci siamo sentiti l’ultima ruota del carro perché ancora oggi, dall’ultimo dpcm che rispetto ma non condivido, ci siamo sentiti burlati. Non capisco il senso di lasciare tutto aperto e far passare il nostro settore come causa principale di contagio.
Aldilà di tutto stiamo pagando lo scotto di un sistema gestito male perché tutto è aperto tranne la gastronomia di qualità, quella che fa attenzione a tutto e che cura i dettagli. Bar e pizzerie stanno lavorando con delivery e asporto che gli forniscono un a strada per avere una entrata, una opportunità che a noi viene negata. Ti garantisco, che sotto il profilo economico aziendale, se ci fosse la possibilità di far entrare in cassa anche un solo ipotetico euro a noi farebbe comodo perché ci sono utenze da coprire, spese da affrontare, investimenti da cui rientrare; cose che non ci stanno dando la possibilità di fare. Ancora una volta sbeffeggiati perché messi tutti in cassa integrazione dandoci un codice fasullo che ci ha messi nella posizione di chiamare e farci dire che le casse integrate saranno distribuite dopo 60 giorni. Onestamente è ridicolo. Il Natale è alle porte e per chi ha famiglia è dura, ma dura davvero.
Uno studio della camera di commercio
dei Paesi Bassi ha evidenziato che non vi è correlazione tra diffusione del contagio e apertura dei ristoranti. Guardando l'ultimo decreto è evidente che si provi (in modo caotico) a svantaggiare le congiunzioni familiari . Non credi sarebbe stato meglio aprire tutti i ristoranti per queste feste, dando alle persone la possibilità di uscire (anzichè restare in ambienti chiusi in cui assembrarsi) garantendo ambienti sanificati, nel rispetto delle regole e con il dovuto distanziamento sociale?
Assolutamente d’accordo su questo punto di vista che rimette la sicurezza ai ristoranti. Non può esserci sicurezza all’interno dei domicili familiari per cui il fatto che solo due persone possano fare visita a parenti, amici o congiunti, non potrà mai essere gestito o gestibile. Il ristorante è invece un posto in cui si seguono le regole e i protocolli quindi oltre alla tracciabilità dei movimenti c'è una maggiore possibilità di organizzare e vigilare. Noi già dalla prenotazione davamo indicazioni su come dovevano comportarsi le persone all’interno della struttura, proprio per evitare lo status di insicurezza; fin dall'accoglienza il cliente veniva messo a proprio agio pur ricordandogli il totale rispetto delle regole, così si sedeva rilassato e nessuno mai ha provato sconforto o ha dato motivo di squilibrio del nostro standard.
In che modo bisogna agire in questo momento?
Aldilà di tutto noi dobbiamo avere la lungimiranza di pensare ad un periodo più positivo. Stavolta è più dura del primo lockdown, perché in primavera avevamo gli occhi puntati sulla bella stagione quindi riuscivamo a vedere il positivo nella fiorenza del lavoro nelle nostre strutture. Oggi guardiamo con un pizzico di sconforto a causa anche dell’insicurezza che respiriamo: non ci sentiamo tutelati da nessuno, nessuna risposta concreta. Faccio un riferimento particolare a noi campani: non c’è chiarezza da parte delle istituzioni nei nostri confronti nonostante il nostro costante attenerci al rispetto delle regole , nonostante il rigore con cui abbiamo ottemperato ai decreti che venivano emanati come fossero caramelle, con cambi di idee che con assurda velocità cambiavano la nostra sorte.
Cosa vorresti dire alle istituzioni?
Stare senza ristorante, per noi, è come vivere una vita surreale. Senza sicurezze e senza la possibilità di portare alla luce lo splendore delle nostre strutture è inutile guardare al futuro; possiamo anche aspettare con un pizzico di speranza ma non riusciamo ad essere ottimisti perché ci stanno mettendo in condizione di non poter più reinvestire nelle nostre imprese, nelle strutture in cui ognuno di noi ha fatto sacrifici. Per il resto non gli dico nemmeno "buon natale" perché purtroppo non lo è per nessuno. Ci hanno tolto quello che di più caro abbiamo nel nostro lavoro: la libertà di esprimerci.
Mentre parliamo le carte in tavola sono ancora cambiate. Vuoi aggiungere qualcosa?
Mettere in moto un ristorante non è possibile dalla sera alla mattina: noi facciamo qualità e siamo simboli di un territorio, autori di una terra che dimostra di avere potenzialità grandiose in termini di prodotti, penso che un minimo di rispetto lo meritiamo anche solo per l’investimento umano. Io avevo grande rispetto per le istituzioni italiane tutte, dalla regione al governo centrale, ma faccio un passo indietro ancor di più per quello che ad oggi è stato dimostrato a riguardo del rispetto nei confronti del nostro settore.
Pensa se avessi deciso di aprire e fatto la spesa oggi: l'ulteriore investimento, la messa in capo di progetti, organizzazione del piano per la linea del pranzo e poi? Poi sarei rimasto con l'amaro in bocca e le dispense piene di cibo di qualità inutilizzato e inutilizzabile. Sono davvero indignato. Troppe prese in giro, nessuna chiarezza.
E l'indignazione è stata incontenibile, da parte di tutti: non è per i tre giorni (che comunque sarebbero stati un modo per rientrare di qualche piccola spesa che in qualunque caso continua a pesare sulle spalle delle attività chiuse) piuttosto per la presa in giro, per la scelta (a tutti i livelli, sia chiaro) di non avere il coraggio di esporsi e dire le cose chiaramente ad un settore che (diciamocelo) alla fine ha eseguito magistralmente sto spettacolo di improvvisazione!
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