SOSTENIBILITÀ AL VERDE.
“Se non uccide, fortifica.”
E infatti … La notizia della chiusura del St. Hubertus di Norbert Niederkofler rafforza l’idea che ci siamo fatti della ristorazione in questi ultimi anni, nonostante non sarà questo evento ad uccidere il malsano modus operandi.
A pochi mesi di distanza dall’annuncio del Noma che ha scosso la ristorazione internazionale (ma non noi) arriva la novità tutta italiana del cambio di direzione del/al St. Hubertus. Non si può certo dire che la cosa sconvolga perché con l’entrata in scena del gruppo Aman ad affiancare la famiglia Pizzinini era chiaro che il progetto avrebbe subito dei cambiamenti che avrebbero riguardato L’INTERA MACCHINA del Rosa Alpina che fa muovere ANCHE il St. Hubertus.
Ci siamo abituati a pensare i finedining come strutture in cui si persegue la ricerca(tezza) e l’eccellenza, dunque soffermandoci sulla giustificazione dei costi e dei flussi; abbiamo imparato a motivare le scelte dei menu - sostenibilità ambientale e territorio - sulla scia di fenomeni che il bombardamento mediatico ha reso sempre più obbligati; abbiamo trasportato poi il discorso, a nostro piacimento, sulla incoerente mancata sostenibilità sociale che coinvolge tutta l’accoglienza ma che stupisce molto di più in un degustazione da 300€ che in un menu del giorno 25€.
Eppure quasi mai abbiamo messo l’accento su quello che davvero è l’ago della bilancia: la sostenibilità economica.
LO SCONTRO CON LA SOSTENIBILITÀ
Norbert Niederkofler si è guadagnato il titolo di eccellenza italiana non perché TikTok lo abbia eletto a tormentone, piuttosto con un impegno intenso e costante in un progetto di ristorazione che ha portato alla riscoperta della cucina di montagna all’insegna della sostenibilità. Fin dal 1994 infatti troviamo Niederkofler nella squadra del Rosa Alpina e dal 1996 alla direzione del team di cucina del St. Hubertus, per un percorso di quasi 30 anni in cui perseguire i valori ed il patrimonio enogastronomico di un intero territorio. Potrà non aver avuto la stessa risonanza mediatica del Noma ma i concetti sono gli stessi, le basi fondanti sono le stesse:
- territorio
- valori
- identità
- sostenibilità.
Fino a qualche anno fa questi principi sono forse stati capaci di compensare una serie di mancanze facendo sì che la sostenibilità ambientale sopperisse alla sostenibilità sociale. Ad oggi, invece, in uno scenario che è il risultato del susseguirsi di tre anni catastrofici tra pandemia e guerre, il mondo della ristorazione si ritrova a fare i conti con il suo incubo: l’insostenibilità economica.
Con l’aumento dei costi (dalle materie prime all’energia), con le difficoltà di trasporto, con la incessante presa di coscienza degli addetti ai lavori associata allo scontro generazionale tra chi ha accettato il sacrificio al fine del successo e chi cerca il riconoscimento per sostenersi… beh, sono venute meno tutte le sfumature lasciando spazio a due sole opzioni: guadagno o perdita. Nessuna novità, penserete. Perché in fondo queste sono sempre state le sole due cose a contare per un bravo imprenditore. Ma troppo spesso questo settore si è ritrovato a confondere l’essere bravi nel proprio lavoro con il saper fare impresa.
SOLD OUT IS NOT ENOUGH
Riempire la sala, fare coperti, guadagnare riconoscimenti e poter azzardare menu che hanno un prezzo non accessibile a tutti non basta a rientrare nei costi affinché un ristorante possa essere in attivo.
Se davvero è questo il fine ultimo da perseguire quello che conta è ottimizzare ed ammortizzare i costi. Ecco che entrano in ballo una serie di incoerenze nell’agire rispetto all’esito atteso:
- può essere sostenibile un locale che pur avendo poche decine di coperti si trova a dover impiegare il doppio delle forze (in numero) nel personale tra sala e cucina?
- può essere sostenibile una cucina che nell’assillante ricerca di una perfezione travestita da moralità, finisce per perdere i valori ed il rispetto per inseguire rispettabilità e valore?
Per far quadrare la situazione è necessario che questa tipologia di ristoranti trovi altri “sostegni” e quindi che facciano parte di progetti più grandi come grandi hotel di lusso o che siano complementari ad attività che abbiano flussi e riscontri più immediati e meno d’élite. Esempio lampante ne è proprio il St. Hubertus che si trova comunque nel complesso del Rosa Alpina e che sicuramente per esso fa da attrattiva ma altrettanto sicuramente non ne rappresenta l’introito fondamentale.
Considerando spese fisse, foodcost, utenze, beverage, turnover e magari un 10% di guadagno, è semplice battere a lungo la strada della perdita; con qualche conteggio fatto bene e la sala full ogni singolo giorno su entrambi i turni si potrebbe anche uscire pari; ma se tutto questo può essere giostrato nella globalità di più attività che si compensano e completano, tutto diviene più fluido.
L’INSOSTENIBILE FRIVOLEZZA DELL’ESSERE…
- …CHEF
A furia di storytelling esasperati, di iperconnessione forzata, di ostentazione di una personalità che non ha più identità, ci si ritrova a lasciarsi trasportare dall’esigenze del mondo intorno più che da quanto può davvero rendere “speciale” una cucina. Se ci soffermiamo a guardare i cicli di chef e ristoranti ci risulta semplice osservare una ripetitività disarmante che porta sempre e comunque - alla fine - a sprofondare in una cucina monotona, già vista che tra essere ed apparire ha scelto di fare share.
- …CLIENTI
Quelli che riteniamo ristoranti di lusso in realtà sono solo un contentino per gli pseudo-ricchi in quanto i loro menù, per sostenersi, dovrebbero costare decisamente di più. Questi pseudo ricchi, sarebbero disposti a pagare il prezzo giusto per mantenere in vita il giocattolo? O preferiscono riempirsi la bocca e le orecchie di concetti e paroloni a basso costo? Perché se è vero, come è vero, che per il 99% delle persone comuni questi posti sono inavvicinabili, è anche vero che la clientela media di determinati ristoranti dovrebbe potere e volere pagare l’intero valore dell’esperienza senza sconti sulle persone.
È il momento di smettere con le chiacchiere e guardare ai fatti, quelli concreti e tangibili perché - al netto del proclamo di intenti - i ristoranti erano, sono e saranno sempre attività economiche e alla fine i conti devono quadrare.
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