Otoro 81 – Le “sospese perfezioni” dello chef Hidemasa Ito e la cucina Nikkei del locale di Chiaia
Visita e degustazione da Otoro 81, sushi restaurant all'interno di Magnolia
Vico Belledonne a Chiaia, 11 – Napoli
Tel: 081277959
Email: [email protected]
Aperto a cena
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Collocato all’interno di Magnolia, Otoro 81 si conferma come eccellenza di cucina fusion, in un’atmosfera di grande fascino.
LO CHEF IGNACIO HIDEMASA ITO
Dal Giappone ha appreso la ieraticità nell’approccio concettuale alla vita ed il rigore professionale, dal Brasile l’espressività gestuale e l’estroversione relazionale: Ignacio Hidemasa Ito è di recente stato insignito delle tre bacchette Gambero Rosso nella Guida Sushi 2025, nonché del premio speciale “i Maestri del Sushi”, riservato solamente ad otto personalità in Italia, ma le sue coordinate operative sono sempre le medesime.
Il suo terreno d’elezione è la cucina Nikkei, che porta con sé il seme della memoria della diaspora nipponica di fine Ottocento, giungendo tuttavia a lidi (relativamente) lontani: nikkeijin significa infatti “emigrati giapponesi in terre straniere” e per chef Ito il suo è un ritorno Proustiano alla terra avita, il Brasile, che gli ha dato i natali, segnandolo nel retaggio personale.
Stratificazione, influenza sincretica, confluenza o giustapposizione, le definizioni teoriche non riescono a rendere la percezione della complessità dell’esperienza gastronomica proposta: Hidemasa Ito è stato accolto nel capoluogo partenopeo, amato sin da primordi con l’esperienza in Tabi, sino a giungere alle eleganti ibridazioni di Otoro 81, sushi-restaurant di Chiaia, collocato all’interno degli spazi polifunzionali del club Magnolia.
L’eccezionale impostazione “pre-gastronomica” di Ito – che si connota di forti valenze antropologiche e culturali – si riflette nella rifinitura dei piatti, ben lontana da suggestioni oleografiche o di accomodamento, all’insegna di un reciso rifiuto dell’umami, in luogo dell’amaro, “un gusto che in Italia è stato sviluppato più che in altri paesi, con esiti eccellenti”.
Notabile, ca va sans dire, l’uso del pescato locale, anche quello azzurro spesso ingiustamente discriminato, come la palamita e lo sgombro; chiude il quadro del crossover descritto l’elemento vegetale, con ingredienti come friarielli, puntarelle e carciofi, cui fa da contraltare la carne – su tutte quella di Kobe – introdotta in Giappone solamente all’epoca della restaurazione Meiji, mediante la revoca del divieto di consumo precedentemente imperante, molto apprezzata da Ito, anche secondo tecniche di cottura ancestrali.
Tornando alla nuova casa di Chef Ito, Otoro 81 è locale di eccellente rigore stilistico, una terrazza improntata ad un design minimale e connotata dall’utilizzo di materiali d’arredo naturali come il legno e le piante: nume tutelare uno dei mantra del taoismo, secondo cui “gli spazi vuoti sono tanto importanti quanto quelli pieni”, a creare giustapposizioni stilistiche di forte impatto visivo anche nell’ambito architettonico.
LA DEGUSTAZIONE ED I PAIRING DA OTORO 81
Inizia la degustazione, dunque, alla ricerca del boccone “perfetto”, sorta di tappa iniziatica da cui partire per ricercare nuove esperienze sensoriali, a riprova dell’appassionata caducità di ogni supposta perfezione.
Dopo il “chicharron – cotica di maiale fritta - con germogli di soia” è la volta della ventresca con kaibashira, cavolo nero, caviale e pepe sansho” e del tiradito con pescato locale – eccezionale il tonno rosso sardo: l’abbinamento è riservato ai cocktail, ed ecco sovvenire il margaritcha, con thè matcha, yuzu, cointreau e tequila, evocativo il servizio, a ricreare suggestioni da rituale del thè nipponico.
Sui ravioli ripieni di wagyu degustiamo il “river pepper” con Mezcal, peperoncino verde, ananas, yuzu e tabasco, in cui la struttura della miscelazione crea una sorta di effetto “tannico” – evocando il mondo enologico – che ben sostiene la complessità della preparazione, preludio alla successiva teoria di uramaki, anche questi paradigmatici dello chef Ito.
Grande rigore nei nigiri – umamijime e di sgombro marinato – che lo chef considera piatto archetipico della propria impostazione tecnica, con una marinatura accentuata del pescato, seguiti dal sakamuchi con verdure: forse leggermente “fuori sincro” il pairing con il pennicillin 81, Falernum home-made, yuzu, Lagavulin, zenzero e miele, che finisce per sovrastare parzialmente le note vegetali dell’ultima preparazione, pur se di grande originalità.
Chiudiamo la degustazione con il “chicken thigh”, coscia di pollo splendidamente servita sin dall’impiattamento, si continua ad osare – ed a vincere a mani basse – nel proporci su il “bloody dashi – acqua di pomodorino giallo del Vesuvio, gin infuso al miso e dashi”, significativo gioco di rimandi fra più tradizioni a confronto.
Incredibile, nella rarefazione da tradizione, degustare come dessert una graffa fritta, guarnita con cioccolato bianco: si torna all'enologia con il pairing, un Sauternes di grande spessore, lo Chateau Simon 2016 Barsac, longevità e acidità al palato che vanno a braccetto.
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