Il cibo ultralavorato è una droga. Lo dimostra quest'esperimento

Antonio Lucisanogio 3 giu 2021

Sembra strano, ma in pieno terzo millennio esiste ancora nel campo della nutrizione qualcosa che la scienza non ha ancora spiegato in modo convincente.

Siamo tutti più o meno consapevoli che una alimentazione basata su alimenti freschi e su prodotti processati in modo semplice (l’olio, il vino, le conserve o i formaggi) sia molto più sana rispetto ad una in cui la parte del leone è fatta da merendine, carni lavorate, bibite gassate, creme, salse ed altri prodotti pronti, dolci o salati, ottenuti attraverso processi industriali che modificano in modo sostanziale le caratteristiche degli ingredienti originari e li combinano in modo da renderli particolarmente gradevoli e prolungarne la conservabilità. Eppure non esiste a tutt’oggi una motivazione scientifica consolidata che porti ad una limitazione (addirittura per legge, secondo alcuni) del consumo di quei prodotti che sbrigativamente definiamo junk food.

Nel Regno Unito, dove l’obesità è ormai un problema sociale molto serio, che affligge 1 adulto su 4 e un bambino su 5 nella fascia di età 10-11 anni, si stima che oltre il 50% delle calorie assunte con gli alimenti provenga da cibi pronti ultra-processati (UPF) confezionati dall’industria e che circa 1/5 della popolazione si nutra quasi esclusivamente di questi alimenti.

Questo signore si chiama Chris van Tulleken, è un medico 42enne ed è il conduttore di una rubrica televisiva di successo della BBC, in cui si discute di alimentazione e salute.

Nella puntata del 27 maggio scorso ha presentato i risultati di un interessante esperimento che ha deciso di condurre su sé stesso.

Chris Van Tulliken

Per 4 settimane ha rivoluzionato la sua dieta, incrementando dal suo abituale 30% fino all’80% il consumo di cibi ultra-elaborati, in modo da verificare in prima persona gli effetti di quella che (purtroppo per loro) è la dieta consueta di molti dei suoi connazionali.

Alla fine del suo esperimento, il dr. Van Tulliken ha dichiarato che il suo peso era aumentato di quasi 7 Kg. e che si era sentito come se fosse invecchiato di 10 anni: dormiva poco, aveva bruciori di stomaco e stipsi e si sentiva triste, ansioso e indolente, oltre ad aver constatato una diminuzione della libido e persino uno sviluppo del seno.

"Mangiare cibo ultra-elaborato era diventato qualcosa che il mio cervello mi induceva semplicemente a fare, senza che io lo volessi espressamente", ha spiegato, aggiungendo che la sua era stata la tipica reazione provocata dalle sostanze capaci di dare assuefazione, come il tabacco, l’alcol e le droghe.

Per fortuna, i cambiamenti nella mia attività cerebrale non sono stati permanenti – ha continuato - ma se in quattro settimane questi sono gli effetti, sia pure passeggeri, sul cervello di un adulto, cosa può succedere a quello in fase di sviluppo dei nostri figli?" ha detto.

Si è quindi rivolto al dr. Kevin Hall, ricercatore senior del National Institute of Health, il quale ha confrontato gli effetti di due diete perfettamente uguali in termini di contenuti di grassi, zuccheri, proteine, sale e fibre, ma molto diverse per l’origine degli ingredienti: una era realizzata solo con materie prime non trasformate e semilavorati semplici, mentre l’altra era composta per l’80% da alimenti ultra-processati. Ai partecipanti al panel era data libertà di consumare il loro cibo nelle quantità desiderate.

Risultato: le persone che seguivano la dieta ultra-elaborata assumevano mediamente 500 calorie al giorno più degli altri e i loro esami del sangue presentavano alla fine dell’esperimento un aumento consistente della concentrazione dell’ormone responsabile della fame, che anche nel caso del test effettuato da Chris su sé stesso era aumentato del 30%.

Altro risultato interessante era stato che chi consumava cibi UPF mangiava più voracemente e più velocemente degli altri, perché questi alimenti sono evidentemente formulati in modo da risultare non solo più appetibili, ma anche più “facili” da masticare e ingoiare.

La ragione principale dei danni dietetici dovuti al consumo di alimenti troppo elaborati sembra in sostanza consistere in qualcosa che potremmo definire la loro “eccessiva perfezione”: non tanto dal punto di vista della composizione (anche se talvolta l’uso di additivi non tradizionali può rivelarsi molto utile per provocare sensazioni nuove), quanto piuttosto per la loro straordinaria praticità d’uso e per la capacità che essi hanno di stimolare tutti e cinque i sensi, così da rappresentare per il consumatore una sorta di “ricompensa” alle proprie ansie, che presto si trasforma in vera e propria dipendenza: più se ne mangia, più se ne vorrebbe mangiare.

Sarebbero questi, in sostanza, i risultati che le grandi multinazionali del food ottengono, avvalendosi di appositi focus group di consumatori con cui si definiscono in maniera sempre più puntuale tutti i parametri sensoriali a cui i loro prodotti devono tendere: non solo per quanto riguarda gusto, aroma, livello di acidità, dolcezza, salinità o croccantezza, ma anche in termini di permanenza e sensazioni in bocca, tempi e modalità di masticazione, sensazioni post-consumo, e tanto altro.

Si tratta di un problema di difficile risoluzione. Non solo per lo strapotere delle grandi aziende, che sono capaci di contrastare efficacemente le iniziative di legge o i disincentivi fiscali di volta in volta proposti per ridurre i consumi di questi prodotti, ma anche perché, per farlo, i governi avrebbero bisogno di chiare evidenze scientifiche sui danni derivanti da un consumo prolungato di alimenti troppo elaborati, che oggi non esistono (anche grazie alle lobby di cui sopra).

Su tutta questa materia aleggia poi un’altra minaccia, che rischia di aggravare ulteriormente la situazione: quella rappresentata dallo sviluppo forsennato che in questi anni stanno registrando le tecniche di Neuromarketing, in cui si analizzano in modo scientifico i meccanismi fisiologici responsabili della risposta degli individui di fronte alle iniziative commerciali delle aziende produttrici. In questo modo, presto nulla sarà più lasciato al caso per prevedere quali saranno i livelli di accettazione e la disponibilità all’acquisto di un certo prodotto.

Per fortuna, qualcosa sembra iniziare a muoversi all’interno delle multinazionali alimentari. Proprio pochi giorni fa l’autorevole Financial Times ha rivelato di essere venuto in possesso di un documento riservato, inviato ai propri dirigenti dalla svizzera Nestlé, che con un fatturato di 83 miliardi di € rappresenta la più grande azienda mondiale del settore food.

In questo documento Nestlé, evidentemente preoccupata per le crescenti aspettative salutistiche del mercato, ammette che è necessaria una revisione urgente delle proprie formulazioni, considerato che oltre il 60% dei suoi prodotti non rispetta attualmente gli standard australiani di “alimento salutare”, fra cui ben il 99% dei gelati e dei prodotti dolciari, il 96% delle bevande, l’82% delle acque aromatizzate e il 60% dei latticini. I prodotti più critici fra tutti sono risultati essere una versione aromatizzata alla fragola del Nesquik, venduta negli USA, la pizza surgelata DiGiorno, farcita con salame piccante, salsiccia e carne di manzo, e una bevanda all’arancia della linea San Pellegrino.

Sembra la dimostrazione evidente che queste questioni potranno risolversi solo se crescerà la pressione esercitata dai consumatori, piuttosto che con norme di legge calate dall’alto.

In realtà c’è chi, sempre a livello industriale, sta lavorando alacremente per fronteggiare questo problema. È un’altra lobby, ancora più potente della prima: quella delle aziende farmaceutiche, che stanno investendo un bel po’ di miliardi per trovare l’antidoto a queste moderne forme di dipendenza alimentare. L’inulina propionato, per esempio, sembra capace di diminuire le attività cerebrali associate alla ricompensa da cibo, attraverso un rafforzamento della capacità dell’organismo di raggiungere prima la sensazione di sazietà.

A pensarci bene, Nanni Moretti ci aveva già avvisati, quando aveva inserito nel suo film “Bianca” la mitica scena in cui lui stesso, nudo come un verme, risolveva le proprie ansie esistenziali affondando il cucchiaio in un gigantesco bicchiere di Nutella.

Fu allora che venne coniato il termine comfort food: di fronte a quella scena noi sorridevamo, e magari ammettevamo che “stranamente” lo stesso capitava ogni tanto anche a noi. Oggi sarebbe il caso di definirli più correttamente trash food e di essere molto più preoccupati di allora nel rivedere quella stessa scena.

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