Càttas pesàdas, le frittelle e il grande fuoco
Dalla Sardegna, le tradizionali frittelle di Carnevale
Una preziosa fonte storica che consulto spesso è il professore Tito Scarpa, persona colta che conserva memoria di molte nostre storie, letterarie e gastronomiche. Oggi ci regala un suo suggestivo racconto sulla preparazione delle frittelle da parte della madre.
Comare e compare ’e fogaròne.
Carnevale è festa grande e in ogni nostro paese viene ricordato. Le grandi manifestazioni, sfilate in costume, balli a suon di musica eseguita dal caratteristico organèddhu, i canti tradizionali accompagnati dalle chitarre riempiono le strade di tutti i paesi, ciascuno con maggiore o minore sfoggio dei colorati costumi di festa. Alle manifestazioni in piazza si accompagnano i dolci più caratteristici, sas càttas, (o zhìppulas) alle quali, a seconda del paese, si uniscono dei mostaccioli, o pabassìnos nièddhos o altri dolci che vengono offerti a coloro che, ai lati della strada, ammirano la sfilata.
Il carnevale si apre con un grande fuoco, indicativo del passaggio dal freddo inverno alla successiva tiepida primavera e quindi del vicino rinverdire e rifiorire di ogni pianta, che viene acceso il 17 di Gennaio in onore di S. Antonio abate. Per antica tradizione, quando due persone, tenendosi per mano, saltano insieme i fuoco, diventano compari. Il picco del carnevale si avrà il Martedì grasso, giorno nel quale tutto sembra lecito, e si brucerà Giorgio, il re della gran festa, o altro feticcio, che rappresenta ogni vizio, ingordigia, egoismo, lussuria, e pertanto viene messo al fuoco per espiare e redimere qualunque male generato dall’uomo.
Non passava carnevale che mia madre non preparasse le frittelle lunghe. Era anche quella una ricorrenza, una tradizione sentita profondamente. Le frittelle che preparava mia madre erano càttas pesàdas, lievitate e, per disporle bene nell’olio usava un imbuto col manico lungo lungo che io, mi dissero poi, chiamavo Pinocchio perché evidentemente me lo ricordava.
L’impasto veniva preparato con cura. Non doveva essere troppo liquido, altrimenti sarebbe sceso dall’imbuto senza freno, né troppo denso così che potesse scendere ma abbastanza piano.
Pinocchio, pieno d’impasto, veniva quindi girato pian piano a spirale dal centro del tegame verso la periferia, sempre lasciando lentamente scendere dalla sua estremità inferiore la rotonda striscia di pasta, finché non si arrivava al bordo; a quel punto, con un dito, se ne chiudeva l’uscita.
Mia sorella, la maggiore, aveva l’incarico di rigirare, con l’aiuto di due forchette, la frittella perché la cottura fosse uniforme. A cottura avvenuta, con l’aiuto delle stesse forchette, le sollevava, le lasciava un po’ sgocciolare, le deponeva ordinatamente su un grande piatto e le spolverava di zucchero o di miele.
Finito di friggere, era da sempre prassi consolidata che mamma ponesse in un piatto delle frittelle e le mandasse, come augurio, a qualche famiglia indigente del vicinato.
Dal mio piatto io prendevo con la mano ben stretta a pugno l’estremità della frittella, la portavo alla bocca e cominciavo a mangiarla. Naturalmente venivo sgridato perché il mio, dicevano, non era un bel comportamento. Ovviamente avevano ragione, ma per me quello era il miglior modo per gustarla, per sentirne appieno il sapore.
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