Great Resignation? La grande fuga. Tutto già visto e, purtroppo, inarrestabile.
Great resignation, mancanza di personale, la crisi della ristorazione.
Nelle ultime settimane mi sono ritrovata a leggere moltissimo di due argomenti principalmente: il fenomeno che gli americani hanno definito great resignation (la tendenza in corso dei dipendenti che lasciano volontariamente il lavoro, dalla primavera del 2021 ad oggi) e la richiesta alquanto pressante di inserire nella categoria dei lavori usuranti non solo i cuochi ma anche tutto il personale del settore della ristorazione. Un personale che però ora come ora stenta ad esserci: tra dimissioni, cambio vita, prese di coscienza e il coraggio delle consapevolezze è successo che il mondo della ristorazione ha finalmente messo a fuoco (e fiamme) tutto il contorto sottobosco che alimenta l’inadeguatezza di un settore che nonostante la crescita esponenziale non è riuscito ad adeguarsi ai tempi ed ai cambiamenti.
Le cose potrebbero non sembrare legate, eppure... ok, dai, vi faccio strada nel mio punto di vista.
Ma procediamo un passo per volta.
LA MATERIA, PRIMA
Great Resegnation, il fenomeno
La Great Resegnation è una vera e propria tendenza, al momento "visibile" negli States ma che si approssima a farsi notare anche in Italia.
La pandemia ha dato modo a tanti lavoratori di ripensare alle loro carriere, alle condizioni di lavoro ed agli obiettivi a lungo termine. Con lo smartworking è arrivata anche quella flessibilità ormai dimenticata che è stata la ragione principale e forse il discriminante più impattante nella ricerca di un nuovo lavoro che riuscisse a conciliare la vita professionale con quella privata. E questo in particolare nei lavoratori più giovani.
Altro "dettaglio" scatenante sono state le maggiori consapevolezze di avere un ambiente professionale che fosse tutelato, sicuro e adeguatamente retribuito. Dunque la paura di perdere il lavoro, qualunque esso sia, ha lasciato il posto al coraggio di pretendere quanto ci si merita.
Va da sè che ristoranti e hotel, sia perché settori che richiedono presenza fisica del lavoratore sia perché colmi di personale giovane, sono stati colpiti più duramente da ondate di dimissioni.
L’Italia con i prosciutti sugli occhi: pure la pandemia è colpa del reddito di cittadinanza.
L’Italia ovviamente non resta esclusa da questa ondata incredibile di cui gli effetti iniziano ad essere numerabili. Ed è stata Stefania Chiale a presentare i dati sul Corriere della Sera; dati elaborati da Cgil Lombardia. Infatti nel 2021 in Lombardia quasi il 10% dei lavoratori si è dimesso.
Più di 1 su 2 si trovavano nella Città Metropolitana e circa 179.000 nella sola Milano. Complessivamente in regione 181.930 dimissionari hanno meno di 35 anni, 178.488 hanno tra i 35 e i 54 anni e 253.000 vengono da rapporti di lavoro più lunghi di un anno. La maggioranza lascia un posto nella ristorazione (39.377), come impiegato (33.208), alle vendite (26.434), nella logistica (21.648) e come addetto alle pulizie (15.828). Il confronto col 2020 segna un più 30%.
Quadro simile quello del Veneto raccontato da Andrea Priante (Corriere della Sera), che indica come nei primi 4 mesi dell’anno 2022 ben 66.300 addetti abbiano scelto di rinunciare - di propria iniziativa - al proprio lavoro.
Ci siamo voluti appellare ad uno spirito di sacrificio andato completamente a scemare da parte dei giovani, ad aiuti statali che hanno dato il colpo di grazia ad una già presente crisi dei valori che d’improvviso sembravano non contare più, abbiamo parlato di dignità e diritto al lavoro ma l’abbiamo sempre e solo guardata da una sola angolazione svalutando il fattore umano e rendendoci compartecipi della banalizzazione dell’aspetto più puro del lavoro: quello psicologico, quello che ci dà modo di non vivere da insoddisfatti e che al giorno d’oggi non può più sintetizzarsi in luoghi comuni quali “scegli il lavoro che ti piace e non lavorerai nemmeno un giorno” perché ormai è vero solo nel momento in cui arriva lo stipendio e si pensa che tra spese fisse, uscite dovute, aumenti vari e una parentesi di vita… veramente è come se non avessi lavorato!
Lavori Usuranti
Per lavori usuranti si tende a dare per scontato che si tratti di lavori gravosi, pesanti fisicamente ma una professione si può ritenere tale anche quando l'impatto usurante riguarda l’applicazione cognitiva e l’interazione quotidiana con il pubblico. Dunque c'è necessità di valutare tanto l'impegno fisico quanto quello mentale e - perché no - emotivo.
Gran parte del nostro tempo giornaliero viene investito nel lavoro, provate a chiederlo ai lavoratori della ristorazione (a torto o a ragione) con le loro 14-16h quotidiane; per cui un lavoro usurante per gravosità di anima e corpo può scatenare un circolo vizioso di malessere e negatività. Lo stress lavoro-correlato può essere definito come la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste dell'ambiente lavorativo eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste, portando inevitabilmente nel medio-lungo termine ad un vasto spettro di sintomi o disturbi che vanno dal mal di testa, ai disturbi gastrointestinali e/o patologie del sistema nervoso come disturbi del sonno, nevrastenia, sindrome da fatica cronica fino a casi di burnout o collasso nervoso.
Dal periodo della pandemia e del post-pandemia i lavoratori hanno iniziato a dare sempre più importanza al benessere psicologico in azienda. È stato osservato, però, da BVA DOX (che a settembre 2021 ha realizzato una ricerca su un campione di persone con lo scopo di valutare i bisogni delle persone e di fare un’analisi dello stato psicologico dei lavoratori) che:
- l’85% dei lavoratori considera il benessere psicologico generale correlato al benessere sul lavoro e viceversa;
- almeno l’80% ha provato almeno un sintomo correlato al burnout;
- 1 under 34 su 2 presenta una maggiore propensione a lasciare il lavoro a causa di un malessere emotivo e psicologico ad esso correlato.
Inoltre, secondo la ricerca “Burnout among U.S. employees pre-COVID Jan. 2020 vs Feb. 2021, by generation”, la percentuale di lavoratori che presenta sintomi di burnout è aumentata esponenzialmente da gennaio 2020 a febbraio 2021, soprattutto nelle generazioni che vanno dalla Z (16-25 anni) alla X (40-55 anni).
IL PENSIERO, SECONDO (me)
Appare dunque chiara la ricerca di un cambiamento di stile di vita. E chi se non i giovani potevano percepire come sempre più importante il tema della conciliazione tra famiglia e lavoro? Per questo, ancora prima dello stipendio, durante i colloqui le richieste di informazioni riguardano le opzioni offerte dalle imprese su questo fronte e, più in generale su quello del welfare aziendale. L’inizialmente tanto odiato smartworking si è poi rivelato un vero e proprio vaso di Pandora, la cui schiusura ha liberato tutto il malessere di un intero comparto (più d’uno in realtà); un malessere di cui si è sempre parlato ma a tono basso e possibilmente senza firmarsi ma che è riconosciuto come una costante.
Vi direte “ma lo smartworking non è possibile in ristorazione/ospitalità!”
Esatto,! Proprio quello forse ha impattato: le persone hanno preso coscienza di quanto e cosa si stavano perdendo e hanno ripreso coscienza (e il coraggio) di esporsi e far valere la propria dignità di persone prima ancora che di lavoratori, due cose che non dovrebbero manco essere tanto lontane.
Anni di silenzio sono collassati su tutta l’ospitalità, rivelando a tutto il mondo la voglia di sentirsi riconosciuti in tutti i sensi.
Salario adeguato, turni di durata e in numero che siano consoni, ottimizzazione dei tempi, formazione costante, spinta motivazionale, “investimento” che non sia semplicemente il titolo dedicato all’imprenditore che c’è dietro il progetto ma piuttosto che sia sinonimo di incremento del benessere e della gestione.
Quello che nessuno dice è che questo mondo non riesce ad adeguarsi con l’unico cambiamento invisibile, non tastabile che però come tutti i valori con tali caratteristiche diventa ESSENZIALE: si tratta del salto generazionale.
È questa la svolta più corposa e di cui non si parla, nè abbastanza nè per bene.
La pandemia - intesa come problema e come blocco ma anche come pausa funzionale e tempo trascorso silentemente - ha fatto sì che ci ritrovassimo come un turnover incredibile facendo anche sì che il mercato si rivoluzionasse. L’emergenza è finita ma la crisi è appena iniziata e non perché i locali postino #jobalert di continuo, ma perché non riescono ad essere confacenti, proporzionati alle necessità, non riescono ad essere trasparenti in tutto e per tutto.
Non è certamente solo colpa del ristoratore, dell’imprenditore. Le difficoltà che ci si ritrova ad affrontare sono INCREDIBILI.
Per completezza ecco una breve carrellata:
- l’Italia ha il costo del lavoro tra i più alti d’Europa;
- i contribuiti a carico del datore di lavoro sono il 25% del costo del lavoro;
- le tasse rappresentano il 14%;
- la metà degli under 30 GIÀ non paga l’IRPEF grazie alle agevolazioni statali;
- L'Italia è tra i Paesi europei con la differenza più alta tra retribuzione lorda e stipendio netto che arriva al lavoratore: il cosiddetto "cuneo fiscale" (tasse IRPEF + contributi) è circa il 46% del della retribuzione lorda. Con i soldi che non finiscono nella retribuzione netta lo Stato copre i costi di pensioni, cassa integrazione, disoccupazione e altri strumenti di welfare.
E allora che succede? Che se si pensa alla soluzione di tagliare le tasse ai giovani si finirebbe con il tagliare a chi si trova già in una situazione più agiata di altri, inoltre porterebbe anche a escludere quei giovani in situazioni più instabili che avrebbero maggiori benefici dalla riduzione dei contribuiti.
L’Italia non è tra i paesi che prevede il salario minimo e come gli altri Stati UE in questa situazione prevede i contratti collettivi del lavoro che per ogni categoria di lavoratori hanno due scopi: una retribuzione minima al di sotto della quale non si può scendere e definite tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro. In Italia questi contratti sono presenti all’85% e mirano ad allargare la copertura del minimo salariale che serve ad assicurare un tenore di vita dignitoso ed a rispettare le condizioni economiche e salariali di ciascun Paese. Il problema è che i minimi salariali non sono basati su criteri chiari nè subiscono aggiornamenti regolari.
Riassumo?
È un collasso. Crolla tutto su se stesso perché non ci sono state basi forti ma nemmeno voglia di rafforzarle. Tutto vogliono costruire ma nessuno vuol fare manutenzione.
Il parallelismo è obbligato e volontario: oggi la ristorazione attraversa la crisi dell'agricoltura degli anni '60; cominciato su finale di quel decennio ma che continua tutt'oggi è l'abbandono dei campi: i terreni di coltivazione sono diventati luogo di privilegio della manovalanza extracomunitaria. Chi raccoglie l'uva in Trentino è la popolazione dell'est Europa che per di più ha una grande competenza, così come nel sud Italia chi si occupa della raccolta dei pomodori è - per la stragrande maggioranza - la popolazione che arriva dai paesi africani.
Insomma, il settore si è ritrovato prima a esplodere - magnificamente, con una crescita ed una maturazione indicibile sia da parte dei locali che dalla parte dei clienti, e poi ad implodere - perché non si può cavalcare un’onda per sempre, prima o poi si finisce a riva e quando l’acqua è poca (come si suol dire) la papera non galleggia.
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