Io, me e Dina. Due mesi di paura e delirio a Gussago
Creativo & sincero, nella mente di Alberto Gipponi succedono cose, di questo flusso di coscienza ne discute con Dina.
Gipponi è ambiverso.
Alberto è la parte introspettiva dell'uomo, la ricerca, il tempo sospeso.
Dina ne è la sua espressione, è il racconto, la visione fisica, la materializzazione del pensiero.
Il cuoco bresciano torna a parlare dopo mesi in cui ha taciuto, in queste settimane ci siamo sentiti più di una volta, ma i suoi pensieri erano interrotti, non completi, in via di definizione, aveva bisogno di un confronto con Dina.
Immaginandoli insieme mi è venuta in mente una vecchia canzone del cantautore Eduardo De Crescenzo, Dina è per Alberto quello che Susy era per Eduardo: "Puoi trovarci tutto quello che cerchi e che nessuno ti da’. Lei ti guarda dentro gli occhi e ti da la luna in un bicchiere "
Ah dimenticavo, Alberto è un cuoco e Dina il suo ristorante.
Alberto Gipponi e Dina
Io, me e Dina (in quarantena)
di Alberto Gipponi
Mia moglie Angela mi chiede come cucinare gli asparagi, sono al telefono con un amico, navigo tra la cucina e il corridoio di casa, mi passo una mano nei capelli (necessariamente sparati in aria), e cerco di spiegargli come Dina vuole tornare ad esserci e a comunicare con il mondo.
Se mettessi in pausa la mia voce adesso, dall’altro capo del telefono, si sentirebbe il tatatata delle pale d’elicottero passare sulla mia testa. Abito a 300 metri dall’ospedale Civile di Brescia, la mia città è stata tra le più colpite d’Italia: l’eliambulanza sembra un’ape impollinatrice nei prati di aprile e basta aprire la finestra per vedere panoramiche pandemiche. La tragedia umana è fuori dalla finestra. Ma questo è il sottotesto.
Quasi non me ne accorgo e oscillo da un piano ad un altro, da un tempo ad un altro: “Dina finora è stata comunicata da altri, e dopo due anni e mezzo di vita, è ora di compiere il salto: comunicarsi in prima persona, raccontando il nostro senso. Aspetta: prendi il pelapatate, togli la parte esterna che la friggiamo, la parte centrale la sbollenti. Con la parte finale ci fai un brodo. Le punte saltale in padella. Dove ero rimasto? Sì. Dina riapre e quello che dirà sarà, per sua vocazione originaria, VERO. Le nostre fondamenta sono state gettate. E sono più solide di quanto credessi, me ne sono reso conto in questi giorni di emergenza. Si riparte da lì. I mattoni non possono che essere le persone, quelle che lavorano e quelle che si siedono in sala. Tutti sono parte di Dina e tutti la fanno, in un movimento di costante creazione. Eh no, scusa Angela ti faccio vedere, ma vai avanti tu che ragionare e far andare le mani gli uomini non sono capaci in sincro”.
Poi la chiamata si è chiusa: c’era da mettere in tavola gli asparagi con le uova, alle 14 mio figlio aveva la scuola in diretta. Vabbè, ma questo è un altro sottotesto. A proposito di figli piccoli, è capitato di pensare a Dina come fosse una bambina. In un attimo mi si è fatta sotto, trapassandomi di domande come solo una bambina sa fare. La guardavo mentre mi chiedeva dov’ero stato, cosa avessi fatto tutto questo tempo, lontano da lei. La guardavo e avrei voluto che potesse vedere la successione dei miei pensieri, durante questo mese e mezzo, in cui Brescia, la mia città, il mio territorio ha sofferto. Tanto. Lei però si è sentita sola, messa da parte. “Tesoro in realtà, non me ne sono mai andato. Anche se non ci siamo visti, in questo periodo ogni giorno e ogni notte, mi sono preso cura di te. Ho cercato di capire come potevo farti stare bene e farti crescere ancora più forte”.
Dina, la cantina.
Io, me e Dina viaggiavamo di notte, stavolta tra il divano e il balcone, si parlava. “Ti ricordi Gaber? Te ne ho parlato alcune volte. Cantava che la libertà è partecipazione. Questa volta partecipare ha significato fermarsi. E sono sicuro che molti hanno sentito la tua mancanza e il tuo valore. Dina: la cosa più importante è il benessere di chi abbiamo intorno, non potevamo metterlo in pericolo”. Avevo nelle orecchie le voci di amici che piangevano i loro genitori morti a primavera. No, non si è potuto continuare. E’ stata sul serio una questione primaria, di vita o di morte. Non si è potuto continuare per una ragione superiore, quella che mi ha impedito di guardare a me stesso e basta. Siamo singoli e plurali contemporaneamente e questo mi è stato chiaro subito. Così ho chiuso, credo primo in Italia, prima dei dpcm, prima di tutto. Ho chiuso e ho pagato tutti quelli che hanno lavorato per me, anche prendendo dal mio portafoglio.
E qui mi permetto di pensare che in questa fase, anche se molti diritti sono stati limitati o addirittura non riconosciuti, ho visto poca attenzione ai doveri. Mi viene in mente la storia dell’etica secondo cui il colibrì corre incontro al fuoco per provare a spegnerlo con le sue due gocce d’acqua. Nessuno pretende che chi non ha, debba dare, ma in questo tempo, fin dove possibile, mi sono sentito chiamato a fare la mia parte. Mi sono chiesto poi quanti fornitori o dipendenti non hanno avuto coperte le fatture di febbraio? Non dico marzo o aprile, ma febbraio. Chi non poteva coprire nemmeno febbraio e io direi anche fino al momento del lockdown ha dei problemi che non mi sento di giudicare, ma chi ha preferito chiudere totalmente i rubinetti, potendo non farlo, quanto male ha fatto? Tanto si cambia il fruttivendolo, tanto si cambia chi ti porta i prodotti per la pulizia, tanto non mi faranno una causa per 2000 euro. Ognuno ha le proprie intime situazioni, le proprie relazioni con i fornitori e con i dipendenti, ma credo nel vivere comune e credo che il senso di responsabilità si basi anche sui doveri, oltre che sui necessari diritti. Il delivery? Inizialmente, senza giudicare chi ha deciso di farlo, non la vedevo come una mossa tutelante: le distanze in cucina non possono essere mantenute, le protezioni, se non altro qui a Brescia, all’inizio erano introvabili. Adesso non lo escludo, ma come ogni cosa che appartiene a Dina, va messo in sintonia, ne va studiata la coerenza, oltre che, naturalmente, la sostenibilità.
In generale, per questo genere di constatazioni, sento una certa dose di delusione se rivedo la parabola di questi mesi. Mi sarebbe piaciuto vedere qualcuno di grosso mettersi il nostro settore sulle spalle. Invece mi è sembrato di vedere, nella maggioranza dei casi, qualcuno di piccolo che guardava al proprio nome, ai propri soldi, come se il mondo finisse lì. Ma esiste un’etica?!
Intanto era tardi, l’umore virava al putrido. E come se ne avesse annusato l’odore, Claudia, una cara ospite di Dina, mi recapita questo messaggio: “Albi per come la vedo io, che sono ben lontana dal concetto “vado da Dina perché fa figo”, Dina è la combinazione perfetta. È un po’ come lo sciroppo di Mary Poppins. Ognuno le attribuisce un gusto. Io, per esempio, le do il sapore di casa. Perché oltre al cibo c’è accoglienza e rapporto. Ma credo che la bellezza di Dina stia nella possibilità di dare in modo soggettivo una definizione. Mi spiego seriamente di merda”. Io credo si sia spiegata benissimo e, anzi, l’altra notte poi sono andato a dormire con il sorriso.
Io, me e Dina. Il pensiero tornava lì, inevitabilmente. Tornava alle persone, all’accoglienza, all’idea di darne e di riceverne. “Ho bisogno che Dina mi ami, mi accolga” dice Pippo. “Così è sempre stato”, rispondo. “Non c’è bisogno d’altro” chiosa. Accogliere ed essere accolti. Coccolare chi entra in Dina e, allo stesso tempo, sentirsi capiti, in un reciproco sguardo che sa ricevere e tenere, anche le debolezze, gli scarti, gli stati d’animo cangianti. Penso alla sala, ai tavoli, ai miei ragazzi e penso che Dina è una casa accogliente.
Mi sono reso conto di come chi è stato Dina, mi ha dimostrato vicinanza, si è fatto sentire, c’è stato. Sono stato accolto. Da qui riparto e sono certo che anche tu che stai leggendo puoi essere parte di Dina, basta che tu lo voglia e ti senta tale. Penso che, specie negli ultimi mesi, abbiamo saputo accompagnare le persone in esperienze più vicine alle loro possibilità di degustazione. Lasciandoli liberi di scegliere sapori più comprensibili, confortevoli, ma facendo vedere loro che c’erano percorsi di gusto più complessi. Offrire qualcosa di più, ma saperlo accompagnare, senza forzature, dicendo che non è sempre il momento di spingersi oltre. Mi piace porgere contenuti, ricerca, quella che scava, in profondità, sia nel gusto che nella tecnica, per arrivare a capire ciò che è stato e ciò che è per sospingersi più in là. E’ lì che ho pensato che Dina è come un tempo verbale, il più incomprensibile di tutti: il futuro anteriore.
C’è la promessa di futuro e, contemporaneamente, la certezza, la sicurezza anteriore. Dina ha già tutto, ma è da realizzare. Passato e futuro si incontrano qui, nel presente e lo rendono grandioso per chi lo vuole abitare.
Mentre scrivo non sappiamo ancora con precisione quando riapriremo. Ma non sono mai stato fermo, ho continuato a studiare, a pensare e a fare. C’è chi mi chiede se le limitazioni cambieranno Dina. No, non credo. Il limite è sempre stimolo alla creatività, come la noia, come l’attesa a cui ho dedicato uno spazio dentro Dina. Uno spazio per farla decantare e aspettare che si riveli l’estro, l’intuito, il non ancora pensato, l’imprevedibile. Mi dico che se avrò la possibilità di usare solo tre colori invece che quindici, beh, aumenterò la capacità di espressione di quel che ho dentro. E’ quella via che non avrei percorso se non mi fossi trovato la strada sbarrata. Il tema della ricerca – nel gusto e nell’accoglienza - è nel Dna di Dina. Io, me e Dina to be continued...stay tuned!
Alberto Gipponi
La stampa lo ha definito una delle rivelazioni più interessanti degli ultimi anni, certificata da la Guida de L’Espresso per cui il Dina di Alberto Gipponi è la novità dell’anno 2019.