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L'inutile strage degli innocenti: non essendo economicamente redditizi le aziende si disfano senza scrupoli dei bufalotti, ma una soluzione ci sarebbe.

La filiera bufalina sminuisce l'importanza dei bufalotti maschi non dando valore alla loro morte

L'inutile strage degli innocenti: non essendo economicamente redditizi le aziende si disfano senza scrupoli dei bufalotti, ma una soluzione ci sarebbe.

"La causa ambientalista e quella animalista sono legate indissolubilmente: i danni dell'azione dell'uomo ricadono su entrambi e non possiamo voltarci dall'altra parte."

Il pensiero scaturisce dalla notizia di qualche giorno fa, quando sulla spiaggia di Paestum è stato ritrovato un cucciolo di bufalino (il quarto in pochi mesi) a pochi metri dalla foce del fiume, tra i rifiuti.

C'è da sapere che i cuccioli maschi non servono alla produzione di mozzarella di bufala e non hanno posto sul mercato per la carne. Così, si finisce spesso ad agire con marcata crudeltà ed indifferenza: abbandonandoli nei campi o gettandoli nei canaloni, persino soffocandoli con matasse di paglia in gola.

Nasce spontanea la domanda: "si può trasformare un prodotto prezioso in un problema?"

La risposta è un rimando quasi ovvio a quanto abbiamo già affrontato nelle scorse settimane: "Sì, quando manca la coesione fra produttori e la politica se ne frega.

Il Punto di Antonio Lucisano

Un paio di settimane fa abbiamo discusso della (in)sostenibilità della filiera produttiva delle carni e delle diverse ipotesi, tutte comunque abbastanza problematiche, su cui si sta puntando per tentare di ridurne gli impatti sull’ecosistema.

In realtà il problema non è di natura soltanto ambientale, perché la sostenibilità è conseguenza di molti altri fattori, come spiega efficacemente questa immagine:

L'inutile strage degli innocenti: non essendo economicamente redditizi le aziende si disfano senza scrupoli dei bufalotti, ma una soluzione ci sarebbe.

Si può trasformare un prodotto prezioso in un problema? Sì, quando manca la coesione fra produttori e la politica se ne frega.

L’obiettivo di migliorare la sostenibilità delle produzioni è un imperativo urgente per tutto il settore della zootecnia, pressato anche dalla crescente sensibilità dell’opinione pubblica rispetto al tema del maltrattamento degli animali negli allevamenti intensivi.

Tante persone, per esempio, dopo aver visto le immagini agghiaccianti di polli rinchiusi in piccole gabbie e sottoposti a cicli biologici contro natura, sono ora disponibili a spendere qualche centesimo in più per acquistare uova biologiche o prodotte da galline allevate all’aperto, o quantomeno a terra. Ed è grazie a questa maggior consapevolezza del consumatore che, anche a livello normativo, si stanno intensificando in Europa gli sforzi per definire nuove e più stringenti misure per assicurare il benessere degli animali in tutte le fasi della filiera, dalla inseminazione artificiale fino alla macellazione ed allo smaltimento dei rifiuti.

Un caso particolare, all’interno di questo scenario, è rappresentato da quelle filiere in cui solo gli animali di sesso femminile contribuiscono all’attivo del conto economico aziendale, come nel caso della produzione di uova e di latte. Se i destini di un pulcino maschio di gallina ovaiola o di un capretto o di un agnello non sono mai particolarmente rosei, quello degli annutoli (i bufalotti maschi) lo è ancora meno.

Mentre tutti parlano della necessità di dar vita a sistemi sostenibili di economia circolare, dove ogni risorsa della supply chain sia valorizzata al meglio, nella filiera bufalina i maschi (cioè il 50% circa dei parti) rappresenta, con rarissime eccezioni, un serio problema per l’azienda zootecnica. Sapendo di non poter rientrare dei costi necessari ad allevare l’animale per i 16-24 mesi necessari a raggiungere il peso ideale per la macellazione, l’azienda è costretta a disfarsene nel più breve tempo possibile, con conseguenze non certo positive sull’ambiente e talvolta sulla stessa reputazione dell’intera filiera, in quei casi - sempre più rari, per fortuna - in cui qualche allevatore senza scrupoli smaltisce in modo illecito le carcasse.

Le ragioni di tutto ciò sono come sempre di natura economica. Ma sarebbero ostacoli tutt’altro che insormontabili, se solo vi fosse la volontà di superarli, migliorando redditività e sostenibilità di questi allevamenti.

Oltre ad essere molto tenera e succosa, non per effetto dei grassi che contiene ma grazie alla elevata ritenzione idrica caratteristica di questi animali, la carne di bufalo presenta straordinarie proprietà nutrizionali: solo 40 mg di colesterolo in 100 g di carne cotta, contro gli 80 della carne bovina; un potere calorico di appena 130 kcal/100g , a fronte delle 280 della carne bovina; meno del 3% di grassi di infiltrazione e una interessantissima presenza di amminoacidi solforati e di acidi grassi “buoni”, come lo stearico, l’oleico e soprattutto il linoleico. Neanche le carni bianche reggono il confronto nutrizionale con questo prodotto, come ben sanno i palestrati e gli sportivi in genere, per i quali questa carne (quando riescono a trovarla in commercio) rappresenta una sorta di anabolizzante naturale, privo degli effetti micidiali degli omologhi di sintesi.

L'inutile strage degli innocenti: non essendo economicamente redditizi le aziende si disfano senza scrupoli dei bufalotti, ma una soluzione ci sarebbe.

Valori nutrizionali delle carni a confronto

Come se non bastasse, da questa carne, se lavorata come si deve, si ottengono insaccati strepitosi: se non ci credete provate ad assaggiare una bresaola di bufalo e confrontatela con quella IGP della Valtellina, poi fatemi sapere. E poi pensate a quale gigantesco sbocco di mercato questi salumi potrebbero avere presso le comunità ebraiche e nei Paesi musulmani.

Ma allora perché la nascita di un bufalo maschio continua ad essere considerata una iattura dall’allevatore? Semplice: perché nessuno si è mai seriamente impegnato per valorizzare questo prodotto come meriterebbe, e come il comune buonsenso suggerirebbe.

Vi fu in realtà, nel 2007, un timido tentativo della Regione Campania (che lo presentò, come al solito, con grande enfasi mediatica) di candidare questa carne per un riconoscimento come prodotto a Indicazione Geografica Protetta. La proposta fu accettata dal Ministero delle Politiche Agricole, ma fu respinta con motivazioni molto discutibili nel 2010 dall’UE: un caso assai raro, di quelli che possono verificarsi solo quando non c’è, da parte del soggetto proponente, la determinazione necessaria a raggiungere il risultato.

Ci sarebbero ampi margini per recuperare quel progetto ma non è questo il punto, perché un prodotto di qualità può avere comunque successo anche senza un marchio IGP.

Immaginiamo per un momento cosa accadrebbe se, anziché rappresentare un problema che interessa (anzi, dovrebbe interessare) i territori della Campania e del Lazio meridionale, questo prodotto fosse una risorsa tipica del Veneto o della Toscana, o meglio ancora di un territorio francese.

Si darebbe immediatamente vita ad un progetto strategico, cofinanziato dalla Regione con quei fondi europei che da queste parti si utilizzano soprattutto per sagre paesane, corsi per estetisti e al più per inutili missioni fieristiche all’Estero, e si coinvolgerebbero, a fianco degli allevatori e delle loro associazioni di categoria, istituti universitari, chef ed esperti di marketing dei beni di largo consumo.

Si avvierebbero studi approfonditi sulle proprietà intrinseche del prodotto e sulle modalità più appropriate di taglio, confezionamento e conservazione, tanto per il prodotto fresco che per i suoi derivati. Si indirebbe quindi un premio per la realizzazione delle migliori elaborazioni gastronomiche e si predisporrebbero i business plan necessari a determinare con precisione costi di produzione e ipotesi di posizionamento sul mercato di una gamma di prodotti studiata in modo da soddisfare al meglio le esigenze dei diversi target.

A seguire, si elaborerebbe un serio piano di comunicazione rivolto tanto ai clienti intermedi (GDO e Food Service) che ai consumatori finali (responsabili familiari d’acquisto e ristoratori), si organizzerebbero convegni scientifici con cardiologi e medici dello sport e incoming guidati per i buyer di potenziale interesse.

Sono solo due le condizioni perché un progetto del genere possa avere successo: che il prodotto possieda reali qualità distintive e che esso sia accompagnato sul mercato da un serio progetto di marketing.

In questo caso specifico, la prima condizione sarebbe ampiamente soddisfatta ma è sulla seconda che tutto si blocca. Non perché scarseggino le risorse economiche necessarie, bensì perché manca una visione del bene comune, sia fra chi fa impresa sia da parte di chi dovrebbe avere a cuore i destini del territorio che amministra.

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