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I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?

Stagionalità, sostenibilità e km0 non decretano il successo

I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?

Di necessità... Sartù!

A scrivervi è ancora Ettore Vivo, farmacista e titolare di Soulburgers piccolissima realtà di ristorazione, operante prevalentemente su furgoni vintage, sia in modalità itinerante che fissa.

La scorsa volta ci siamo lasciati parlando di food cost o meglio di break even point che è risultato essere la vera meta a cui propendere al fine di riuscire a fare pareggio non solo con i conti ma anche tra la richiesta del cliente ed una consapevolezza maggiore del ristoratore. Perché prezzo e valore differiscono in primis per una variabile importante: la percezione.

I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?

Certo, di punti interrogativi ce ne sarebbero moltissimi, e qui non c’è un depositario della verità, sia chiaro, anche perché come ho detto, non posso reputarmi uno che ha successo nella ristorazione, ma uno che esiste e resiste da 5 anni.

Ma poi in fondo cosa vuol dire avere successo?

Pensateci. Per un attimo.

Mc Donalds, spesso sinonimo di junk food, può essere considerato di basso livello? Non credo.

Mc Donalds è la madre di tutte le hamburgerie, diciamocelo. In grado di generare memoria gustativa, di fare mercato, di guidarlo, indirizzarlo e soprattutto DI AVERLO INVENTATO.

Mc Donalds è un miracolo industrial-culinario. Che sia Napoli, New York, Parigi, Tokyo, o Dubai, un Big Mac sarà sempre un Big Mac. Provate a farlo voi.

I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?
Ricordo di Big Mac 2.0 - Soul Burgers

Ovviamente noi non siamo Mc Donalds, e la maggior parte di noi non lo sarà mai.

E la Nutella? Beh più o meno vale lo stesso discorso.

Piuttosto che prendere le distanze in maniera snob e radical chic da questi prodotti industriali reputo necessario, invece, esserne ispirati.

Riproducibilità indipendentemente dalla geografia, e in alcuni casi dal tempo e dalla storia, sostenibilità economica per l’azienda, sono aspetti che vanno valutati per creare il “proprio” prodotto.

I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?

Mi fanno davvero sbellicare concetti come “chilometro zero”, “stagionalità”, “rispetto per la materia prima” (se pur nati con le migliori intenzioni) quando vengono applicati ai piatti, alle pizze e ai panini della nostra zona ed ai loro prezzi messi in relazione con quelli che impone il mercato. Esistono realtà agricole nella nostra area che davvero producono eccellenze, realtà che sono diventate partner di ristoranti stellati e blasonati della nostra area (come Vincenzo Egizio, di cui mi pregio di essere un piccolo cliente ) ma il ricorso TOTALE, a materie prime del genere è impossibile, vuoi per il breve periodo di stagionalità di alcuni prodotti, vuoi per il prezzo, vuoi per la quantità estremamente limitata e l’alta richiesta di alcuni frutti della nostra terra. Vuoi per i clienti, che sì, adorano mangiare salsiccia e friarielli tutto l’anno e la parmigiana di melanzane a Natale. Il barattolo di friarielli lo abbiamo tutti nelle nostre dispense, su... non mentite!

I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?
Pokè alla Soul Burgers

D’altronde le conserve sono da tempi immemori il modo più sostenibile per rispettare la stagionalità e le materie prime, come i pelati preparati ancora oggi in casa da tante famiglie.

Il nobile concetto del chilometro zero, poi, si scontra con la totale impossibilità di realizzarlo,

e soprattutto con il gusto che può essere drammaticamente lontano così come lontani sono i territori di origine di alcuni eccellenti prodotti. Evitiamo di usarlo come fiore all’occhiello. A meno che non andate a fare la spesa nei campi a piedi e tutti i giorni... ok?

I grandi marchi alimentari spesso sono sinonimo di scarsa qualità percepita: è davvero così?

Il mio maestro di cucina ci raccontò la storia dell’arrivo del riso in Italia, che avvenne a Napoli. Venne proposto ai cuochi campani che lo definirono “uno sciacqua panza”, un prodotto che non sarebbe mai piaciuto ai napoletani. Attraverso lo stivale arrivò al nord dove il riso divenne risotto, mentre da noi divenne Sartù.

Non so se questa storia è vera, ma mi ha ispirato lo stesso tantissimo. La cucina è trasformazione, ingegno, sostenibilità economica e riproducibilità. E il palato dei nostri clienti è l’unico giudice. Vero.

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