I MILLE NOMI DEL LATTE
Latte: produzione, lavorazione , conservazione e norme. Tutti i dettagli per le denominazioni
Si fa presto a dire “latte”.
Non è più come quando la ragazzina di Gianni Morandi poteva farsi mandare dalla mamma a comprarlo senza problemi. E non è più come una volta neanche il latte, che a quei tempi non viaggiava per migliaia di chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole e proveniva da vacche felici, che erano allevate allo stato semi-brado, si riproducevano senza ricorrere alla fecondazione artificiale e vivevano a lungo, perché erano alimentate a foraggi verdi e fieno, anziché con mangimi insilati, espressamente formulati per metterle in grado di produrre 30 e più litri di latte al giorno, come devono fare oggi, se non vogliono andare al macello prima del previsto.
Allora nelle latterie o nelle salumerie c’erano solo bottiglie di vetro trasparente, con vuoto a rendere, realizzate nel modo più semplice possibile: le si riempiva di latte, le si tappava e poi le si immergeva in acqua bollente, prima di raffreddarle ed etichettarle.
La rivoluzione in Italia iniziò a metà degli anni ‘70 e fu innescata da un’azienda svedese, la Tetra Pack,
che si chiamava così perché la confezione che sostituiva la tradizionale bottiglia di vetro aveva una stranissima forma a piramide tetraedrica, che molti chiamavano “busta” e che allora non solo sembrava il massimo della praticità, ma risultava anche simpatica, perché per aprirla bastava tagliarla in un angolo e premerne il contenuto (come se la si stesse mungendo) direttamente nella tazza o nel pentolino.
fonte foto: Tetra Pak® – Housewife at the dairy counter in a Swedish shop
Il materiale di confezionamento era costituito da un accoppiato di cartone esterno (che assicurava la resistenza agli urti), uno intermedio di alluminio (che difendeva il prodotto dall’ossidazione e dalla luce) e uno interno di polietilene, che evitava reazioni chimiche tra contenuto e contenitore.
L’innovazione non finiva lì, perché la vera rivoluzione copernicana consisteva nel processo produttivo, in cui per la prima volta si invertivano le due operazioni fondamentali della lavorazione. Anziché confezionare prima il prodotto e sottoporlo poi al trattamento termico di sanificazione, come in precedenza si era sempre fatto per conservare qualsiasi alimento, si faceva l’esatto contrario. Si faceva passare il latte sfuso attraverso uno scambiatore di calore, che prima lo scaldava e poi lo raffreddava, e solo dopo lo si confezionava in quegli strani contenitori, con un sistema di riempimento definito “asettico” perché, grazie all’uso di valvole a vapore e di acqua ossigenata, si garantiva la protezione totale da possibili fonti di inquinamento. Questo sistema manteneva molto meglio di prima la qualità originaria del latte, perché consentiva di dosare in modo preciso la quantità di calore necessaria alla sua conservazione e soprattutto di raffreddarlo in pochi secondi, a differenza di quanto era possibile fare prima.
Pochi anni dopo, sia la Tetra Pack che altre grandi aziende di packaging iniziarono a lanciare sul mercato nuovi contenitori a sezione quadrata, simili agli attuali, che presentavano grandi vantaggi rispetto agli originari tetraedri. Si ottimizzavano ulteriormente i volumi di carico, si potevano sfruttare molto meglio di prima le pareti dei cartoni per scopi di promozione e si allargava enormemente la versatilità di quegli imballaggi, che infatti furono utilizzati ben presto anche per passate di pomodoro, succhi di frutta, zuppe pronte e tanto altro.
Grazie a queste innovazioni, che semplificarono enormemente la logistica del prodotto, in tutte le principali città italiane iniziarono a nascere grandi Centrali del Latte, che trasformavano per lo più latte importato dai grandi allevamenti intensivi tedeschi, francesi e olandesi, in conseguenza delle cosiddette “quote latte” imposte ai vari Stati europei, che costringevano l’Italia ad usare quasi tutto il proprio latte per la produzione dei suoi grandi formaggi DOP.
Per iniziativa dei pochi produttori che disponevano di latte italiano e spingevano per poter sfruttare a fini commerciali l’origine nazionale della propria materia prima, iniziò allora una battaglia per regolamentare l’uso dell’aggettivo “fresco”. Il latte importato garantiva infatti buoni standard igienici, ma a fronte di una qualità nutrizionale che non poteva essere altrettanto elevata, sia per le modalità industriali di allevamento degli animali, sia soprattutto per la necessità di pastorizzare e raffreddare il prodotto prima di fargli affrontare il lungo viaggio verso l’Italia, dove all’arrivo in Centrale il latte doveva comunque subire un secondo trattamento termico, prima di essere confezionato.
Si stabilì così per legge che poteva definirsi fresco solo il latte pastorizzato entro 48 ore al massimo dalla mungitura, indicando in etichetta la zona di mungitura o quanto meno la provenienza.
Fu anche varata una legge che regolamentava una ulteriore categoria qualitativa, quella del Latte fresco pastorizzato di Alta Qualità, e stabiliva che si potesse etichettare così solo il latte proveniente da allevamenti in possesso di determinate caratteristiche e previamente autorizzati, contenente non meno del 3,6% di grassi e 32 g/l di proteine, costituite a loro volta per almeno il 15,5% da sieroproteine solubili. Quest’ultimo, strano requisito è in realtà il più importante di tutti, perché può essere soddisfatto solo dal latte non ha subito più di una pastorizzazione e a temperature particolarmente blande, così da mantenere meglio le proprie caratteristiche nutrizionali.
Da quel momento in avanti è iniziata una continua ricerca di differenziazione del prodotto, che ha messo a disposizione del consumatore un numero impressionante di proposte commerciali diverse le quali, pur recando in etichetta una specifica denominazione, sono presentate tutte insieme sugli scaffali o nei banchi frigo dei supermercati e possono quindi confondere parecchio le idee di chi acquista.
Prima di tutto bisogna decidere se quello che ci serve davvero è latte nel senso stretto del termine, proveniente dalle mammelle di una vacca.
Sì, perché il mercato è ormai invaso da una miriade di prodotti sostitutivi del latte (ottenuti da infusioni di riso, soia, avena, mandorle, nocciole, cocco, ecc.), destinati a intercettare la crescente domanda di chi sposa la filosofia vegana o si fa convincere dalle periodiche (e più o meno fantasiose) campagne di criminalizzazione del latte vero.
Fin qui la scelta è semplice, perché la legge prevede che il termine “latte” sia riservato esclusivamente al latte bovino, mentre il latte di altre specie (come quello di capra) deve riportare chiaramente in etichetta il nome dell’animale da cui proviene e tutti i prodotti di origine vegetale non possono essere chiamati “latte” ma “bevanda a base di…”. La stessa regola vale per le parole “formaggio” e “cacio”, che non possono essere usate per etichettare prodotti come il tofu o qualunque altro derivato da materie prime vegetali.
Altrettanto facile è riconoscere il latte biologico, che deve essere in possesso di una specifica certificazione, o i latti speciali, come quelli arricchiti di vitamine, sali minerali, fibre vegetali, fermenti lattici o Omega 3, oppure quelli delattosizzati, ottenuti attraverso un trattamento enzimatico grazie al quale il processo di digestione del lattosio viene svolto in fabbrica prima del confezionamento, anziché nell’intestino di chi può presentare intolleranza a questo carboidrato.
Anche l’individuazione del contenuto di grasso del latte non è complicata,
perché ormai tutti sanno che sono 3 le tipologie di prodotto: intero (almeno il 3,5% di grasso), parzialmente scremato (fra l’1,5 e il 2%) o scremato (max 0.5%). Così come ormai tutti conoscono bene le differenze fra il latte a lunga conservazione, che non ha bisogno di refrigerazione, e quello a scadenza breve, che deve invece essere obbligatoriamente tenuto in frigo.
Quasi tutto il latte in commercio del primo tipo, cioè sterilizzato, riporta in etichetta la sigla UHT (Ultra-High Temperature): significa che il prodotto è stato privato di tutti i microrganismi originariamente presenti, trattandolo in flusso continuo ad altissima temperatura (intorno ai 135°C) per un tempo brevissimo (decimi di secondo) e confezionandolo poi in modo asettico. E’ un prodotto che non possiede ovviamente le proprietà nutrizionali del latte pastorizzato, ma ha il vantaggio di durare mesi e di poter essere conservato ancora per 3-4 giorni dopo aver aperto la confezione, purché sia tenuto in frigorifero.
La scelta si complica notevolmente quando parliamo di latte pastorizzato,
cioè di un prodotto in cui il latte crudo è stato esposto a temperature molto più basse (p. es. 72°C per 15”, 63° per 30’ o altre combinazioni di tempo/temperatura equivalenti), ma sufficienti a distruggere tutti i microrganismi patogeni ma tali da salvaguardare quasi tutte le straordinarie proprietà nutrizionali del latte, consentendo al prodotto di mantenersi sano per almeno 5 giorni, se conservato in frigorifero.
Esiste uno specifico requisito analitico che qualunque latte pastorizzato deve soddisfare sempre e comunque: dare esito negativo al test della fosfatasi alcalina, un enzima naturalmente presente nel latte crudo, che viene inattivato quando si raggiunge un trattamento termico sufficiente a eliminare i microrganismi pericolosi per la salute umana.
All’interno di questa categoria merceologica è possibile trovare oggi in commercio ben 5 diverse tipologie di prodotto che, oltre al marchio del produttore e all’eventuale nome commerciale attribuito dall’azienda, devono recare per legge in etichetta una delle seguenti denominazioni:
- Latte pastorizzato
- Latte fresco pastorizzato
- Latte fresco pastorizzato di alta qualità
- Latte pastorizzato microfilltrato
- Latte pastorizzato a temperatura elevata
Il prodotto etichettato semplicemente come latte pastorizzato non rivendica una origine né un processo produttivo particolari, a differenza del latte fresco e del fresco di alta qualità, di cui si è scritto più sopra.
Il latte pastorizzato microfiltrato è invece ottenuto attraverso un procedimento molto particolare. Una volta ripulito da eventuali impurità, il latte crudo subisce una centrifugazione, che lo screma completamente. La panna così ottenuta viene omogeneizzata, in modo da ridurre il più possibile le dimensioni delle particelle grasse, mentre la parte magra è sottoposta a un processo fisico di microfiltrazione attraverso membrane ceramiche a maglia strettissima (1-2 millesimi di millimetro di diametro), in grado di trattenere le cellule microbiche. Al termine di queste operazioni la panna e il latte magro vengono rimessi insieme, in modo da riportare il contenuto di grasso del prodotto finito ai livelli previsti per legge, a seconda che si tratti di latte intero, parzialmente scremato o scremato. Si procede quindi alla definitiva pastorizzazione, che, pur essendo particolarmente blanda, grazie alle operazioni effettuate in precedenza, consente al prodotto una vita in frigorifero almeno doppia rispetto ai 5-6 giorni del latte pastorizzato in modo tradizionale. Il più popolare claim utilizzato per questo genere di prodotti è “Dura di più”.
Una ulteriore categoria, che rappresenta un compromesso fra i pregi qualitativi del pastorizzato e la praticità dell’UHT, è quella del latte pastorizzato a temperatura elevata e ESL (Extended Shelf-Life).
In questo caso il latte crudo viene sottoposto a un trattamento termico più drastico, tale da inattivare anche un altro enzima naturalmente presente nel latte crudo, la perossidasi, che non viene distrutta nel latte pastorizzato in modo tradizionale. Il risultato che si ottiene così è un prodotto in grado di conservarsi molto a lungo, fino a 25-30 giorni. “Più giorni” è il claim più diffuso per questa categoria di prodotti.
Grazie alla diffusione delle tecnologie di confezionamento asettico, tutte queste tipologie di latte sono ormai disponibili tanto in cartone che in bottiglia di plastica.
Oltre alla classificazione del latte in funzione delle normative, un cenno va fatto infine ad alcuni marchi di qualità volontari,
che garantiscono modalità di alimentazione e di allevamento del bestiame molto più stringenti rispetto a quelle stabilite dalle leggi nazionali ed europee comunitarie, comprese quelle previste per l’Alta Qualità.
Fra questo, il marchio più noto a livello internazionale è il Latte Fieno, nato in Austria e riconosciuto a livello comunitario da un marchio STG, che esclude tra l’altro l’uso di mangimi OGM e di insilati e prevede che la razione alimentare delle mucche sia costituita per almeno il 75% da erba o fieno.
In Italia un caso di successo, che si fonda su principi altrettanto rigorosi del precedente per quanto riguarda l’alimentazione e il benessere animale diffondendo notevolmente, è rappresentato dal marchio Latte Nobile. È un progetto nato su iniziativa di un gruppo di allevatori e trasformatori del Sannio, che fa propria una bella frase di Mihajlo Pupin, un grande scienziato del secolo scorso: “Guarda quelle mucche e ricorda che i più grandi scienziati del mondo non hanno mai scoperto come trasformare l’erba in latte”.
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