Il “caffè di qualità” non esiste.
Dalle inchieste di Report ai falsi grandi equivoci urlati sui giornali. È bene fare chiarezza
Sono anni che circola l’espressione “caffè di qualità” in sottintesa contrapposizione con il resto del caffè che dovrebbe essere scarso. Per chi usa questa espressione il caffè scarso è dichiaratamente il tipico espresso napoletano (italiano) servito nella stragrande maggioranza dei bar, delle caffetterie e dei ristoranti del nostro paese, principalmente del sud, e più nello specifico di Napoli.
Lo strano fenomeno Report
L’espressione "Caffè di qualità” è stata lanciata, meglio dire che ha preso vigore, durante la prima puntata di Report incentrata sulla denigrazione del caffè espresso
Correva l’anno 2014; stesso anno della prima inchiesta sulla Pizza, portata avanti sulla stessa falsa riga, e che, più recentemente, ha visto i giornalisti di Report autoproclamarsi “salvatori della Pizza” perché a quanto pare credono d’esser stati loro a dare il via al nuovo filone della meglio conosciuta oggi “pizza contemporanea”.
Evidentemente in Report si ignora il fatto che i giovani nati e cresciuti in contesti di aziende familiari, nonostante l’imprinting marcatamente tradizionalista, crescendo studiano, viaggiano, sperimentano, provano, e poi portano nei locali di famiglia o nelle loro nuove imprese la propria conoscenza che intanto si è arricchita di nuova e diversa cultura.
Un attento osservatore potrebbe pensare che nel 2014 Report abbia iniziato strategicamente, e legittimamente per i propri interessi, una serie di puntate a tema destinate a far parlare a lungo, con l’intento di alzare l’audience e lo share anno dopo anno. E in effetti ha avuto ragione. Parlate di pizza e di caffè e avrete sempre tutta l’attenzione degli italiani, figuratevi quella dei napoletani se chiamati in causa criticando i prodotti che più amano.
Il 2014 – dicevamo - è stato l’anno in cui Report ha iniziato a toccare argomenti legati al caffè e alla pizza, di lì in avanti, soprattutto per il caffè, lo ha fatto a cadenza periodica, ogni 2 o 3 anni; e visto che pochi giorni fa è andata in onda l’inchiesta “definitiva” a tema pizza, con tanto di incoronamento, non è difficile ipotizzare che presto potremmo assistere all’ennesimo episodio dedicato al caffè. Allora, prima che rischiamo di ritrovarci Report tra i padri fondatori anche del “Caffè di qualità”, dopo esserlo divenuti della pizza contemporanea, ho deciso di anticiparli, ripercorrere i metodi giornalistici che hanno usato, provare a fare un po’ di chiarezza e, magari, evitare, almeno per il caffè, la medesima imbarazzante deriva.
In queste “inchieste” i giornalisti di Report interrogano ciclicamente le medesime personalità chiamate da un lato a testare e a giudicare vari caffè consumati casualmente per la città, i quali risultano quasi sempre pessimi; e dall’altro lato a riconoscere, a distinguere, ed elogiare “caffè di qualità” incontrati probabilmente meno casualmente. Se volessimo pensar male verrebbe quasi da dire che, viste le difficoltà a trovare dei buoni caffè in città, quelli buoni li intercettano appositamente con l’intenzione di promuoverli. Ma non pensiamo male e ci limitiamo ad invidiare la gran fortuna di questi signori. Per giunta, chi nel tempo ha seguito la saga, avrà potuto notare l’encomiabile quanto incomprensibile cambio di opinione che tra una puntata e l’altra alcuni di quei giudici hanno avuto su alcuni brand, dapprima criticati negativamente, e poi finiti per esser elogiati tanto, al punto da meritare menzioni e premi ufficializzati attraverso pagine di prodotti editoriali firmati da quegli stessi giudici chiamati in causa da Report per le sue inchieste. Quando si dice che il tempo cambia le cose. Menomale va.
Caffè di qualità preparato a regola d’arte
Bene, terminata la doverosa premessa, servita per portarvi nel contesto, iniziamo subito chiarendo una cosa: non esiste una categoria di caffè denominata “caffè di qualità”. Chi usa questa espressione intende banalmente riconoscere caffè esclusivamente Arabica, in tanti casi certificati “Specialty”, e per loro insindacabile giudizio lavorati a regola d’arte. Ma chi le fa le regole dell’arte? Non esiste un disciplinare che possa definire come deve essere lavorato un caffè “a regola d’arte”. Anzi, ad onor del vero c’è da dire che si è provato a redigerlo qualche anno fa per presentare la candidatura del caffè espresso a “patrimonio dell’Unesco” ma è stato praticamente bocciato dall’istituzione preposta. Tra le altre cose, da operatore del settore, mi sento di dire che era un documento che presentava dei parametri talmente larghi che da risultare inadeguato, per non dire inutile.
Proporrei quindi di archiviare sia l’espressione “caffè di qualità” che quella di “a regola d’arte” relativa alla preparazione del caffè; anche perché per quest’ultima, oltre alla preparazione del caffè prevista al momento dell’estrazione, ci sarebbe da discutere dell’arte legata a tutta la fase di lavorazione (tostatura), la quale, checché ne dicano i soliti esperti e giudici, imprenditorialmente parlando, può e deve seguire una varietà di logiche e di pratiche che vengono condizionate sia dal canale di mercato in cui il prodotto verrà distribuito (Ho.Re.Ca, vending, casa), in quanto ad ognuno di questi è destinato l’uso di differenti macchinari per l’estrazione che necessitano di caffè lavorati diversamente per rimandare in tazza tutta l’essenza delle caratteristiche di ogni blend o monorigine; e sia dalla cultura del paese in cui sarà distribuito, che è legata alle tradizioni e ai gusti locali.
Ignorare la geografia, le culture, e i canali di mercato a cui è destinato un prodotto è purtroppo il più grave errore che commettono coloro che di caffè ne parlano senza l’incombenza di doverlo produrre e commercializzare, ma soltanto teorizzare o, quando va bene, servire.
Alcuni equivoci sono chiarissimi
In questi giorni in cui, guarda caso, sono andate in scena un paio di piccole fiere di settore tra Milano e Napoli, è tornato dirompente un vecchio articolo pubblicato da Repubblica, intitolato “Caffè, il più clamoroso equivoco gastronomico d’Italia”
In questo articolo pubblicato da Repubblica e ripreso da Francesco Costa nel suo podcast Morning, del 15 Novembre, intitolato: “I confini che diamo al mondo e le altre storie di oggi”, intervengono o vengono citati, oltre ai soliti esperti già noti grazie a Report, alcuni piccoli imprenditori i quali, tutti in accordo, insieme all’autore dell’articolo, concludono, a mo’ di filastrocca, che il caffè proposto in Italia è mediocre. Questa volta però a supporto delle loro teorie aggiungono un’ulteriore regola che dovrebbe seguire il settore, non si sa bene da quali dati supportata. La regola vorrebbe che il caffè venisse venduto ad un prezzo minimo di 2€. Tutti i caffè proposti al di sotto dei 2€ sarebbero di scarsa qualità. Ecco, questa affermazione è falsa. Mi sono già lungamente espresso a riguardo, pertanto rimando ad un articolo a firma di Francesco Sanapo che, provocatoriamente ma non tanto – io direi molto concretamente - prendendo come spunto la ristorazione, effettua dei semplici calcoli concludendo che se in un locale vengono venduti ed erogati 30-40 caffè al giorno, in un paese come l’Italia in cui alcune caffetterie arrivano a vendere ed erogare 700 e più caffè al giorno, probabilmente il problema non è il prezzo del caffè che si vuol far credere essere sottopagato, bensì è la scarsissima capacità di rendere sostenibile un certo tipo di idea di impresa basata su sole nozioni teoriche. Il messaggio di Sanapo è chiaro, e personalmente lo condivido in toto pubblicamente da anni: se vogliamo offrire un certo tipo di proposte dobbiamo creare locali all’altezza, educare imprenditori e lavoratori e, soprattutto, riuscire a venderle quelle proposte grazie ad una esperienza totale e non solo legata al prodotto fine a sé stesso. A quel punto il prezzo del caffè non avrà più importanza. Se non si riesce a portare avanti questo tipo di operazioni, allora è bene che iniziamo a prendere seriamente in considerazione il fatto che, a prescindere dalla teoria, il risultato di tutti i prodotti è attestato dal mercato. Occorre iniziare a parlare più largamente di qualità dei modelli di impresa e non soltanto di “caffè di qualità”. Non occorre, o meglio dire che non basta, creare soltanto prodotti di un certo livello. Occorre creare aziende di un certo livello. L’ambizione di ogni impresa è fatturare e, progressivamente, creare posti di lavoro e utili. Se non ci si riesce, evidentemente, alcune nozioni possono essere destinate soltanto alla formazione teorica, e non ad aziende di prodotti e somministrazione, perché in termini finanziari e commerciali avrebbero – almeno in Italia – un destino segnato dal fallimento perché basate su proposte diametralmente opposte ai tempi da rispettare delle aziende al momento del servizio, nonché ai gusti dei consumatori. Non dimentichiamo che alcune delle proposte di tanti chef stellati sono basate sui prodotti più popolari, quelli sì preparati a regola d’arte. Un’arte individuale che innalza il valore, anche economico, del prodotto e del servizio, insomma dell’esperienza tutta.
Dove sono invece i locali degli esperti del caffè di qualità? Ci sono locali in cui questi signori investono direttamente e si mettono in gioco praticando le loro teorie sulla qualità?
Personalmente credo sia molto più da elogiare un maestro torrefattore, un barista qualificato, capace di creare, lavorare, ed estrarre, un caffè studiato per avere un sapiente equilibrio tra dosi di Arabica e Robusta tale per essere apprezzato dal fruitore principale che è l’unico ad attestare il successo di un prodotto e di un’azienda: il pubblico. Ancor di più oggi, che il pubblico è abituato a anche a consumare caffè monoporzione direttamente a casa grazie all’uso di macchine domestiche che permettono l’estrazione di caffè espresso vicino all’immaginario di quello dei bar, lavorare caffè anche per questo tipo di canale è diventato ancor più complicato. Dosare Robusta e Arabica per permettere al binomio macchina/caffè di rimandare un buon espresso in tazza al consumatore non è impresa semplice. Fin a poco tempo fa i “giudici” demonizzavano il canale dei monoporzione, poi probabilmente sono andati a scuola di finanza e, consapevoli dell’enorme mercato che si è creato intorno a questo filone casalingo, alcuni di essi hanno addirittura iniziato a commercializzarle. Potere del tempo e dei legittimi sforzi di tener su le proprie imprese.
Le dinamiche finanziarie in cui, fortunatamente, evapora un certo tipo di “qualità”
L’analisi finanziaria, quando si tratta di caffè e di imprese legate al caffè, è molto articolata. Se la si vuol far combaciare con quella esclusiva teorica “qualità” delle proposte, diventa quasi chimerica: grazie ad alcune multinazionali, Starbucks su tutte, che ha avuto il merito di indicare la strada anche ad alcune grandi aziende italiane, abbiamo capito che un certo tipo di proposte possono essere effettuate solo all’interno di un certo tipo di locali. E allora qual è il problema? È che un certo tipo di locali, talmente belli che varrebbe la pena pagare un biglietto di ingresso, ragion per cui passa in secondo piano anche l’eccessivo prezzo dei prodotti, riesce a realizzarli soltanto un certo tipo di aziende.
Ultimamente a Napoli registriamo l’apertura (benedetta) di un locale stupendo: Luminist, caffetteria e Bistrot per il momento, anche Fine Dining in futuro. Il locale è parte del progetto Gallerie d’Italia, e prende vita in uno storico palazzo di Via Toledo. Gallerie d’Italia è un progetto finanziato anche da Banca Intesa San Paolo; va da sé che gli ingenti investimenti effettuati per la realizzazione degli spazi destinati ai servizi di ristorazione e caffè sono stati di una banca. La potenza di Starbucks e del Gruppo Percassi (referenti per l’Italia), dall’altra parte, sono stati i pilastri su cui invece si è creata la Roastery Starbucks a Milano. Non risultano pervenuti, purtroppo, ulteriori locali degni di nota che propongono una proposta analoga. Questo per dire che, evidentemente, se nessun piccolo o medio imprenditore tenta di investire in un certo format è perché un certo format è molto dispendioso. In sostanza si rischia che locali di un certo tipo – e nessuno se lo augura - siano destinati a chiudere il bilancio d’esercizio costantemente in perdita a causa delle grosse spese di gestione da un lato, e dell’esiguo numero di consumazioni che, seppur pagate ad un prezzo più alto, non arriverebbero mai a coprire quelle spese. Chiudere il bilancio in perdita è superabile per qualche tempo, solo per alcuni gruppi finanziari, e solo quando altre attività del gruppo permettono di sopperire le perdite. Ma per piccoli e medi imprenditori, rischiare di investire tanto su un certo tipo di proposta senza cambiare il concept, il format, e tentando di limitare le spese di gestione del locale, può essere solo l’inizio della via verso il fallimento.
Caffè buono o cattivo? Il mistero del fantasma formaggino
Ma torniamo più materialmente al caffè. In locali come il Luminist, soprattutto se in questi anni avessimo preso come oro colato tutte le nozioni teoriche sapientemente decantate dai massimi esponenti dei “caffè di qualità”, non ci aspetteremmo mai di trovare offerte le proposte di un brand ultra commerciale come Lavazza. Soprattutto se accostato ad una pasticceria di assoluta qualità come quella del Maestro Armando Palmieri, e ad un ottimo servizio proposto da uno staff super preparato. Dobbiamo essere intellettualmente onesti. Nonostante alcune buone proposte del brand e alcune linee monorigine di valore, Lavazza nell’immaginario collettivo, e non solo, risulta essere uno dei caffè più popolari e commerciali che abbiamo in circolazione. Non fraintendetemi, per me è una cosa positiva essere un brand popolare, in quanto significa che si realizzano fatturati e utili enormi contribuendo alla crescita del PIL del paese. Ma non sempre questo coincide con la definizione di “qualità” che vogliono inculcarci gli esperti. Il fatto che si proponga questo brand in un locale “di lusso”, “di qualità”, in un momento storico in cui si fa tanta teoria elogiando le torrefazioni e, soprattutto, le micro torrefazioni che propongono “Caffè di qualità”, Specialty Coffee, ecc. non so come dire, stride un sacco con tutto quello storytelling; soprattutto se tanti elogi provengono dagli stessi onnipresenti esperti e giudici che, in tempi non sospetti, hanno tanto criticato i prodotti di quello stesso brand, finendo poi per elogiarlo e premiarlo quando ha iniziato ad investire su un certo tipo di format. Certe scelte non dipendono dalla qualità dei prodotti, ma dalla forza finanziaria e dai rapporti tra gli stakeholder. Alcune volte il prodotto passa, anche giustamente, in secondo piano. Poi si lavora per migliorarlo. E in Luminist ci sono riusciti rendendo buono un prodotto che nasce e si propone tra i più commerciali del settore.
Servirebbe a questo punto un po’ più di coerenza e onestà intellettuale da parte di chi è chiamato a valutare la “qualità”; o forse una maggiore conoscenza dei mercati. La verità è molto semplice: non ha senso parlare di “caffè di qualità” perché la stragrande maggioranza delle torrefazioni italiane è capace di produrre caffè di qualità, e ognuna, nella propria linea di prodotti inserisce almeno una miscela di caffè che presenta tutti i parametri utilizzati dagli esperti per rientrare in tale definizione.
D’altra parte, possiamo affermare senza timore di smentita che, gli stessi giudici che oggi elogiano il brand Lavazza per le proposte che presenta nel nuovo locale napoletano, se in una delle prossime inchieste visitassero altri dieci locali dove si propongono miscele di caffè del medesimo brand, sicuramente non potrebbero valutarlo come degno di menzione tra quelli offerenti “caffè di qualità”. Ci basterebbe rivedere qualcuna delle prime puntate di Report.
E allora come è possibile che lo stesso brand, nella stessa città, per lo stesso canale di mercato, possa riprodurre in tazza un “caffè di qualità” in un locale, e un caffè pessimo in un altro locale?
Misteri del settore. Misteri molto chiari però per chi il settore lo vive.
Ragion per cui invito i lettori, i telespettatori, e i consumatori, a non prendere come oro colato tutto ciò che viene scritto negli articoli di giornali che elogiano o screditano un certo tipo di caffè, un certo tipo di lavorazione, o un brand specifico. A non prendere come verità assoluta tutto ciò che viene riprodotto in certe “inchieste” giornalistiche televisive. Il settore caffè, probabilmente come tutti i settori del mercato, se non di più, è guidato da una miriade di interessi che, a volte anche in buona fede, pregiudicano i giudizi dei diretti interessati.
Il consiglio è di tentare di restare informati, di approfondire, di testare, assaggiare, e basarsi sempre e solo esclusivamente a quello che è il proprio gusto personale che, progressivamente, oltre ad essere sempre più allenato, sarà anche sempre più consapevole di tutti i pregi e i difetti, le storture e le virtù, di un settore padre di uno dei prodotti che sarà costantemente tra i più discussi della storia.
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