Intervista a DonPasta: "La Repubblica del Soffritto" su Audible, una fionda gravitazionale!
Daniele de Michele, DonPasta, la cucina italiana: il trio della tradizione ci riporta con i piedi sulla Terra.
Video Intervista
Un paio di settimane fa è uscito su Audible il podcast “La Repubblica del Soffritto”, di Daniele de Michele alias DonPasta. La piccola intervista che venne fuori dalla nostra telefonata ha dato vita a una conversazione, ad un confronto che mi ha presa proprio nell’angolino più profondo della mia anima perché parlare con Daniele non è solo ascoltare le sue esperienza piuttosto quelle di tutti, non è solo dar voce al proprio punto di vista bensì riattivare la voce dei ricordi, di ciò che si è vissuto rivivendola e condividendola come esperienza universale. Cucinare è un regalo di tempo, arte e cultura ma anche una responsabilità di tradizione, ascolto e pensiero. Perché cucinare è trasmettere, è donare.
Tra una manciata di cose da dire, un quanto basta di nuovi spunti nati e un quanto ne chiama di ricordi innescati, il tutto ovviamente condito con abbondante curiosità, ci siamo ritrovati negli studi di Fatelardo per approfondire quello che avevamo iniziato, per entrare a pieno in una dimensione che forse in troppi hanno dimenticato: quella dell’ascolto, dell’attenzione, della sorpresa della scoperta di noi stessi.
Daniele de Michele si racconta attraverso le sue interviste, in una intervista che metterà ognuno di noi “ascoltatori” nei panni di Jonas (Dark) sul volo Oceanic Airlines 815 (Lost) mentre dall’altoparlante si sentirà la voce di Cooper (Interstellar) che ripete: “Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango.”
Daniele ciao, come nasce l’idea di DonPasta? Come sei “diventato” DonPasta?
(Ride) In realtà non era ancora nata l’idea quando è nato DonPasta. Sin da quando avevo 14 anni facevo il dj, mettevo musica punk, reggae, hip hop, musica ispirata ai clash, ad un certo punto quando ho cominciato a viaggiare tra Roma e Parigi mi dicevo “ma questi come mangiano?” La prima cosa che notavo, rispetto al mio Salento, era che l’idea della cucina non era mai legata all’idea della festa cioè l’idea di djset era molto più quadrata, invece noi in Salento prima di mettere musica -o addirittura durante- si mangia, si fa festa.
Questa idea, questo pensiero divenne sempre più forte e cominciai lentamente a organizzare delle feste in cui cucinavamo e mettevamo musica ma tutto avveniva ancora separatamente. Nel 2000 ero a Parigi, nel club dove facevo performances che si chiamava Le Jungle Montmartre e praticamente mi dissero “cucinaci una cosa Italiana” ed io così, mentre mettevo jazz ed hip hop e con la gente fomentatissima iniziai a fare questa pasta. Gli feci delle tagliatelle, ricordo benissimo e così -manco fossi il don corleone della pasta- iniziarono a chiamarmi DonPasta. Che poi il Don della pasta non vuol dire nulla ma allo stesso tempo simboleggia il massimo rispetto che nutrivano nei miei confronti che gli preparavo la pasta fatta a mano, per cui lo trovai azzeccato proprio per il suo spirito giocoso.
Dunque un momento di svolta quel piatto di tagliatelle!
Eh sì, perchè mi accorsi che l’idea di cucinare e mettere i dischi era qualcosa che arrivava a tutti in quanto tutti la capivano ciò che gli stavo dando. Nessuno aveva mai fatto una cosa simile ma, nel momento stesso in cui la feci, mi resi conto che la gente recepiva forte e chiaro ciò che volevo dire in quella esibizione: che non te ne frega niente di fare il perfettino in cucina, che puoi utilizzare la cucina esattamente come utilizzi la consolle cioè per far star bene la gente. Il Dj è famoso perché fa star bene la gente e la cucina fa la stessa cosa: mia nonna cucinava per far stare bene la gente non per sentirsi dire “brava”.
Quell’evento fu un qualcosa di fulminante: colpiva. E mi fu facile capire, proprio dallo sguardo delle persone, che poteva diventare qualcosa di importante per me. Per anni l’ho coltivata pur continuando a lavorare come economista, poi nel 2006 decisi di dedicarmi totalmente a questa mia “missione”: abbandonai il lavoro di economista anche perché iniziai anche a scrivere, di cucina. La cucina è una cosa che se ti prende non ti lascia scampo, devi abbracciarla è più forte di tutto. Così nello stesso 2006 pubblicai Food Sound System, in cui parlo di quando ho iniziato ad appassionarmi alla musica mentre mia nonna cucinava per me, una sorta di unione tra le due cose che si sono rivelate importanti per me. Queste due cose si univano nel mio cervello e fu inevitabile cominciarne a scrivere.
In che misura lo scrivere ti ha dato uno sprone ancor maggiore dell’idea che hai, della missione che insegui, rispetto al voler portare la tradizione sul piatto di tutti?
La scrittura è la cosa più magica perché alla fine è la cosa più “inutile”, è quella in cui ti devi impegnare di più, quella in cui devi fare attenzione nel leggerla ma allo stesso tempo è come il canto, ovvero la cosa più minimale che abbiamo e questa cosa la rende universale. Altro dettaglio è che io avevo letto Manuel Vasquez Montalban con Pepe Carvalho, un detective al quale piaceva mangiare e cucinare, e Jean Claude Izzo, l’equivalente francese, ma anche Erri De Luca che parlava della parmigiana e mi accorgevo che il raccontare l’emozione di un piatto era più onesto che il raccontare il piatto in se. Se tu devi spiegare come si fa una genovese elenchi dosi e preparazioni; se invece tu parti dal ricordo, dal racconto vero di un piatto il tutto diventa universale perché tutti abbiamo vissuto quelle emozioni. Questo concetto divenne il mio faro per molto tempo.
Per anni ho scritto libri, perchè attraverso la scrittura riuscivo ad esprimere nel modo più personale la mia emozione nel descrivere i vissuti: gli asparagi selvatici con mia nonna davanti al mare, il raccoglierli e farli con una pasta; i primi ricci aperti e mangiati al momento con il provolone piccante e la birra; il polpo che sbatti sullo scoglio con il pescatore. Ci sono dei fatti che a raccontarli si riesce a far ricordare, a tutti, quella stessa sensazione perché ci accomuna tutti quella sensazione e c’è bisogno che rinasca in ognuno. Prendi ad esempio la metafora di Ratatouille con il grande gourmet che alla fine si emoziona: è geniale perché fa capire che tu puoi aver fatto tutte le esperienze del mondo però l’emozione è un’altra cosa, è linguaggio universale.
Sono usciti i podcast de “La Repubblica del Soffritto” su Audible e ci dicevamo che non sono anche un approfondimento di quanto hai scritto e vissuto in Artusi Remix. Sono storie quotidiane di persone comuni che tu racconti cogliendo particolari che nessuno coglierebbe perché ne sottolinei la normalità e la cosa mi attrae tantissimo, perché io riesco a cogliere la tua idea di tradizione che è completamente diversa da tutte le altre: tradizione non come staticità ma come qualcosa che si muove nel tempo e nello spazio. Quale è il senso di cogliere queste storie quotidiane? Come mai la scelta di far rivivere la tradizione sulla tavola ma soprattutto nella mente di tutti? Forse perché la tavola sono il modo più accessibile per arrivare alla mente delle persone?
Questo è sicuro. Per quanto riguarda la mia idea di cibo anche io mi sono accorto strada facendo delle cose, proprio perchè è stato molto involontario e, per fortuna, talmente pionieristico che tutti mi chiedevano cosa fosse ciò che stavo facendo; fu un momento fortunato quando tutti mi chiamavano per fare spettacolo e per scrivere articoli, perché effettivamente nessuno l’aveva fatto prima nel modo in cui lo facevo io. Il cibo ti permette di dire delle cose che parlano di cibo ma in fondo parlano di tutt’altro, ti permette di toccare degli argomenti importanti con le persone. Pensaci: noi mangiamo tre volte al giorno e in queste tre volte tu puoi fare tante scelte. Le interviste sono state uno strumento di sviluppo per me: io potevo reggere qualsiasi tipo di argomento perché era “narrativamente giustificato” dal fatto che alla fin fine io seguivo una ricetta ed a quel punto diventava tutto fattibile, nel senso che io avevo come unità di tempo quella in cui quella persona stava portando a termine una ricetta ed in quel tempo tutto poteva succedere, di tutto si poteva parlare.
La seconda motivazione, che mi ha portato a fare sta scelta, è che la cucina italiana e tutte le cucine popolari nel mondo sono l’origine delle cucine. Non esiste una origine di cucina borghese, solo quella francese ad un certo punto ha creato una solida struttura che ha messo basi più importanti di quella popolare. La cucina italiana è nata, cresciuta e si è sviluppata negli ambienti popolari. Non si può e non è corretto, da un punto di vista storico e deontologico, dire che esiste in Italia una cucina nobile, una cucina borghese, una cucina degli chef perché sono tutte derivazioni della cucina popolare.
Come nasce la cucina popolare?
Ci sono persone in un luogo che si dicono ad esempio “abbiamo un polpo, abbiamo fame e serve energia per lavorare”; insieme si cucina e ci si chiede “tu come lo fai questo?”; si inizia a notare che l’acqua di polpo è buona e che calzerebbe a pennello il pepe, così come altre mille piccole attenzioni. Nasce così il brodo di polpo. Tale brodo è per cui una condivisione di informazioni che le persone democraticamente si davano. Tutti in quello stesso luogo partecipavano alla creazione di quel piatto.
Esattamente come con Linux, si fa sì che nessuno abbia inventato quel piatto ma tutti insieme hanno costituito una piattaforma, un canovaccio dentro il quale la stessa ricetta può avere miliardi di varianti tante quante sono le famiglie (varianti che possono nascere da un’esigenza di un figlio vegetariano, dall’arrivo di un parente con un’altra cultura) e tutte queste cose diventano interne al piatto e gli danno un’identità. A patto che rispettino il canovaccio.
Il canovaccio è l’unica base fondante: nella parmigiana bisogna friggere le melanzane, fare un sugo e unire le due cose; se tu fai questo, all’interno poi puoi mettere ciò che vuoi, friggere come vuoi, per il tempo che vuoi.
Se non si capisce come sia nata la cucina italiana, non ne si può capire il concetto!
Trovo divertente che la cucina italiana sia nata in dialetto ed è ancora più divertente che adesso tutti parlino con gran paroloni dando addirittura divieto al dialetto. Non esiste una cucina italiana nata in italiano perché mangiamo da prima che nascesse l’italiano, le nostre ricette sono nate con un codice che era il codice dialettale. Questo discorso per me era la matrice da cui partire. Io ho capito intimamente e per mio convinzione culturale, di curiosità, politica, che non si può affrontare la Cucina (così come ogni cosa) senza interpretare le persone che l’hanno originata. Raccontare le storie delle persone ti permette di capire che non puoi vivere la cucina di un luogo senza capire come quelle persone hanno vissuto quel luogo.
La cucina oltre ad essere appartenenza è condivisione.
È soprattutto condivisione ancor prima dell’appartenenza. Alla base c’è trasmissione che è la cosa più importante. Perché una nonna vuole che tu impari a preparare quel piatto? Solo perché è buona o perché vuole che ti arrivi il valore che c’è dietro quella ricetta, quel piatto? Il concetto della trasmissione è alla base di ogni elemento sociale e politico, è come dire ”questa è la cosa che io ti lascio in dono!”. La cucina è dono: di valori e di tempo.
Secondo te come può essere impegnato al meglio il tempo?
La crisi dovuta al covid è stato un momento molto interessante per analizzare il tempo, perché fino ad oggi la gente non aveva idea che il pane si facesse semplicemente unendo farina e acqua e lasciando poi che tutto si riposi; credeva che bisognasse passare il tempo a massaggiare l’impasto oppure a impastare per 15 ore. È stato manomesso il concetto di tempo. Il pane si fa impastando e poi lasciando riposare, un brodo si fa mettendo insieme gli elementi e lasciando tempo all’acqua che bolle. Ad oggi la gente ha potuto rivedere quanto aveva già visto da piccolo osservando le nonne, cose che aveva dimenticato, per mille ragioni: perché si è distratti, perché si pensa al lavoro, perché c’è impellenza, perché ci siamo abituati anche a cucine diverse dalla nostra (vedi il sushi). C’è una frenesia assurda più o meno legittimata ma che ti fa pensare che tutto quello che hai imparato fino a i tuoi 12-13 anni, tutto quello che osservavi con un altro sguardo, tutto ciò che poi sono le cose della vita, ad un certo punto non hanno più senso e credi a quello che la società ti dà. E la società ti dice che bisogna andare veloci, bisogna consumare il più possibile, che devi sbranarti il mondo, devi credere a tutte le fandonie, devi credere al sushi piuttosto che ad un’acciuga con olio. E alla fine tu ci crederai, perché nessuno ti ha difeso quello da cui sei partito, la tradizione, cioè nessuno nel passaggio verso i 16-17 anni ti ha detto “questa cosa è un valore”. È lì che scatta la responsabilità della società ed è per questo che noi, in qualità di operatori culturali, abbiamo il dovere di dire che tutto ciò che siamo riusciti a rivedere e riassaporare in quarantena è esattamente ciò da cui siamo partiti. Fermiamoci e pensiamo che mentre noi cucinavamo, i bambini guardavano e collaboravano; eravamo finalmente uniti a tavola per mangiare insieme e mangiando si parla e si discute, si pensa e ci si confronta. Questo è il nucleo più profondo.
Beh, sicuramente farci il pane o una pizza, ma anche un piatto di pasta, in quel modo ci ha riavvicinati esattamente a quella che è la tua missione con la tradizione. Il fatto poi che escano i podcast subito dopo l’uscita da questo periodo credo aiuti molto il tuo scopo perché credo le persone abbiano un po’ ritrovato quel legame con la tradizione, come tu dicevi. Ma cosa ti ha portato a registrare la tua voce?
Ti dico una cosa: io quando iniziai a fare interviste avevo come una sorta di pudore, di rispetto, che non mi faceva entrare in quei mondi. Era talmente sacro quello che ascoltavo, talmente puro, che qualsiasi valutazione riguardo quella cosa, qualsiasi deduzione, riflessione, rivendicazione di quelle parole sembrava superfluo. Io chiesi ad una nonnina irpina “fai tu la passata di pomodoro?” e lei mi rispose “roba di scatolette e besciamella non ne uso!: in due parole come scatoletta e besciamella si inseriva tutto quello che è il mondo capitalistico del cibo, in due parole aveva espresso un concetto altissimo. Detta una cosa del genere, cosa potevo mai aggiungere? Quindi per anni io ho fatto i miei video, facevo le mie performance, ho lavorato con le immagini, ho fatto il mio film “I Villani”, però poi mi sono accorto che serviva, anche per affetto verso queste persone, far capire davvero e quindi ritornare al racconto della mia emozione perché mentre ero lì ad ascoltare avevo vissuto delle cose. Insomma, volevo condividere una emozione che mi ero per certi versi censurato. C’era un pudore forte da parte mia nel mettermi dentro quello che avevo vissuto e ricevuto, perché probabilmente non ero ancora maturo per dirmi che in realtà non c’era bisogno di aggiungere cose o fare deduzioni, dovevo raccontare quello che io avevo provato ed in quel momento ho capito che le immagini potevano diventare dei suoni. Quindi ho scelto di togliere il potere dell’immagine e lasciare tutto il resto, lasciare tutto così com’era stato.
Hai tolto immagine ma hai donato immaginazione!
Sì, verissimo, perché il podcast ha il potere di obbligarti ad uno sforzo che magari non si fa giornalmente nè con leggerezza: dimenticarti tutto e metterti lì ad ascoltare una nonnina che ti parla di guerra, di dopoguerra, di fame, di disperazione e di liberazione; puoi sapere che quella nonnina, magari dei bassi di Napoli, ha 9 figli e ce l’ha fatta a dare da mangiare a tutti, sempre onestamente; che, nonostante tutto, non ce la fa a vedere una persona che non può permettersi un pasto e quindi è disposta a rinunciare al suo pur di aiutare. Ed è così che ti accorgi di tutto quello che è stato la costruzione di una comunità per un popolo. Diventa bello e importante ascoltare. Così facendo io ho ascoltato e vissuto una ricetta come non avrei mai potuto e per di più ho mangiato salsiccia e friarielli come non l’avrei mai mangiati. Questi incontri, poi, per me erano belli perché entravo in casa di persone che non conoscevo e loro, come se mi conoscessero da sempre, si svelavano e svelavano tutto di loro. Nel Podcast loro dicono tutto, ma TUTTO.
Quindi riescono ad essere senza filtri davanti al cibo con te?
Ci sono due cose da mettere in conto:
1-Le persone di una certa età, avendo superato delle difficoltà con un sacrificio enorme e ormai guardando la cosa dall’alto, riescono a dirti con ironia del loro percorso, riescono a dirti “ce l’ho fatta! È stato difficile ma io ce l’ho fatta e i miei figli stanno bene. Sono fiera di me.” E magari ti dicono il tutto giocando, raccontandoti aneddoti buffi. C’è una sorta di leggerezza nel loro modo perché hanno vissuto di tutto.
2-partendo dal presupposto che c’è una cosa che per me è il centro di ogni cosa (anche se è molto dura da dire): più la modernità avanza e più la memoria scompare, più la ricchezza avanza più c’è un’idea di società diversa e più la cultura del cibo, così come noi l’abbiamo costruita, scompare. Paradossalmente ciò che è accaduto in quarantena infatti manifesta quanto abbiamo bisogno della nostra tradizione, del nostro tempo. Queste donne hanno vissuto tutti questi sacrifici, non hanno paura di una telecamera, non hanno pura di svelarsi, non hanno pudori o vergogne rispetto alle loro origini, queste donne ti parlano dirette e ti raccontano quello che hanno pensato e spesso è giusto. Il podcast ti permette di entrare davvero in quelle case così come entravo io. Il video, invece, è un po' un “artificio” (pur nella sua giusta bellezza) perché con esso vedi per forza il ruolo del regista, quello del montatore che praticamente, in qualche modo, manomettono la realtà affinché questa realtà diventi sublimata, cioè è fatto per il bene della storia. Andando indietro con la mia mente però, mi chiedevo “ok, ma cosa è successo davvero in quella casa?”. Così ho voluto registrare.
Il progetto era nato prima del covid ma la realizzazione è avvenuta durante il periodo di lockdown: su zoom, io, il mio microfono e le due autrici. Era molto bella questa posizione di racconto, loro battevano sui miei ricordi e mi dicevano “non sproloquiare, ricorda semplicemente quello che hai vissuto”. L’aver fatto un racconto molto semplice lo rendeva quasi etereo, cioè il mio racconto doveva per forza stare lì dentro: si sente la mia voce nell’intervista ma il racconto delle mie emozioni è come se avvenisse in quel preciso momento, in contemporanea. L’omogenizzazione tecnica era chiaramente diversa perché c’erano registrazioni di archivio rispetto a una voce off, ma il punto era che io dovevo semplicemente spiegare perché queste persone erano importanti per me.
Spiegalo anche a noi, perchè?
Perché ti trovi di fronte a persone che altrimenti non ascolteresti mai, persone con un modo di pensare legato al fatto che hanno acquisito una leggerezza e una saggezza a partire dai sacrifici, tutto quello che hanno conquistato e tutto quello che hanno capito lo hanno fatto a loro spese, con enormi sforzi, lavorando come bestie e questa cosa gli permette di osservare il mondo e di vedere cosa è giusto e cosa è sbagliato senza che sia qualcun altro a dirglielo. Quando una persona così ti dice “non esiste che tu guardi ed io mangio”, penso abbia detto tutto; quando un vecchietto, un pastore, di 90 anni mi dice “tutta la vita sono stato controvento, non so se ho fatto bene o meno però ho fatto così” ti lascia del tutto senza parole, ti fa capire che l’unica cosa che gli importava era produrre la ricotta così come la aveva sempre fatta, anche andando contro ogni legge, ogni regola morale, ma facendo il caglio; quando dicono “l’aceto buono si fa con il vino buono” ti accorgi che ti dicono delle cose che sino sostanziali ma che si vanno perdendo.
Ricordo che continuavo a ripetermi cosa significasse la frase “di tutto quello che hai non ti manca niente”, e mi ritornava e mi girava nella mente e continuavo a chiedermi come fosse possibile che un pastore di 90 anni mi avesse lanciato una tale frase; ho poi capito che loro hanno un modo di pensare che è così profondo perché è legato all’osservazione della realtà.
È molto presente la Campania nei tuoi racconti. Quale è il rapporto che hai con Napoli e la Campania?
Napoli, ma non solo Napoli. Anche la costiera amalfitana e la zona vesuviana, in modo diverso, hanno la stessa attitudine di Napoli città.
Io ho sempre avuto un amore immenso per Napoli, ma da sempre. Chissà, forse in un’altra vita sono nato napoletano. Sta di fatto che in tutti i passaggi più intimi della mia vita Napoli c’entra sempre: quando ho iniziato con gli spettacoli ero a Napoli, quando ho fatto “I Villani” ho lavorato solo con napoletani; non so dirti come mai, so solo che mi trovo bene.
Devo fare una distinzione: se ti ritrovi con l’idea di cucina fighetta e leggera, con il cuoco che se la mena, con una idea di ricchezza che non ti fa capire quello che c’è dietro ogni cosa, ti perdi tante cose; se, invece, come popolo, per tante ragioni (povertà compresa) intuisci che ciò che stai mangiando -che sia genovese, brodo di polpo o babà- non ha una alternativa altrettanto valida e cioè che non ci sarà mai un compromesso con il resto, perché il resto non ti potrà mai dare lontanamente nè la bontà nè l’economicità nè l’emozione di un piatto napoletano. Se si capisce che nessuno ti può dare di più, perché dentro di noi sappiamo (o almeno dovremmo) che quello che ci è stato dato dalla cultura, dalla famiglia è insostituibile, allora puoi mangiare qualsiasi cosa nel mondo, apprezzandolo anche, ma non accetterai mai che si perda la tua tradizione, la tua cultura, il tuo modo perché “troppo umile, troppo condita o troppo vecchia”. Ogni piatto di qualsiasi mondo è buono, però non potrai dire che quel piatto è più buono perché è più cool.
Ad un certo punto la modernità ha detto che quanto c’era nella nostra storia non serviva più, in modi diversi, attraverso il commercio, attraverso la comunicazione, le tv, il linguaggio hanno chiuso le porte alle nostre culture. E parlo di dialetti, canti o tradizione, parlo di artigianato e di cucina. A tutto questo Napoli ha sempre detto no. Non si è mai piegata.
E come mai trovi che Napoli sposi la tua idea di voglia di continuare la tradizione?
Quando cominciai a fare Artusi Remix, ogni giorno chiedevo ricette di un piatto: se era ragù napoletano magicamente mi arrivavano decine e decine di commenti, che litigavano anche tra loro sulla “versione tradizionale”; se chiedevo di risotto alla milanese usciva a stento un piatto. Lì mi è stato chiaro che l’assenza di memoria ti fa perdere la consapevolezza di un piatto, cioè tu pensi che un piatto si faccia guardando un ricettario o utilizzando dosi e preparazioni; ebbene io sono certo che nessun napoletano fa questa cosa qua. I napoletani hanno ognuno la propria ricetta di famiglia di ogni piatto, dal ragù al babà, dalla genovese alla pastiera. Su quella ricetta tramandata, loro costruiscono una serie di gesti inconsci ed istintivi, gesti che sono legati a dosi, preparazioni e tempi.
A Napoli ogni persona che ho incontrato ha la propria versione di genovese ad esempio, ed è una follia perché se vai a Roma la carbonara te la saprà fare uno su mille. Sai questo perché? Perché a Napoli hanno detto ok alla modernità però fino ad un certo punto, senza essere sostituiti. E questa è una cosa assai rara.
Napoli ha conservato nel canto, nella musica, nella cucina un compromesso, di certo pieno di contraddizioni e sicuramente fragile, ma non ha venduto l’anima al diavolo. Chi ha venduto l’anima al diavolo l’ha persa per sempre.
La ricchezza ha portato una omologazione, soprattutto ha fatto calare la voglia di pensare e quindi di sforzarsi a capire il “quanto basta”, “a occhio”, “quanto ne tiene” della nonna.
Si chiama alienazione marxiana. Ti faccio l’esempio sui semi che sono la metafora più importante. Ad un certo punto il contadino ereditava il seme e lo sviluppava, quindi faceva le proprie modificazioni, i propri “test genetici” del seme, vedeva quale seme funzionava nella propria campagna e se lo scambiava con i contadini vicini. Questo ha creato l’evoluzione dei semi, ognuno aveva il proprio tipo che aveva sviluppato in secoli e secoli di attenta osservazione. Qualcuno poi ha detto “lascia stare. Io ti do semi che funzionano sempre. Smetti di pensarci!” Ovviamente cose legate anche ad utilizzo di medicinali e veleni ma che, fondamentalmente, han tolto la fatica. Il patto con il Diavolo sta proprio nello smettere di pensare, per cui prima o poi diranno “guarda c’è un prodotto ancora migliore” e ci si piegherà ancora, causando una perdita della propria conoscenza.
Ti faccio capire il senso con un esempio ancora più chiaro: quando a fine 1800 Artusi ha scritto il libro, diceva “io questa cosa la faccio così”; con l’uscita de Il talismano della felicità e de Il cucchiaio d’argento si è passati a “si deve fare così”. Dall’anno zero al 1950 la cucina è stata osservare, elaborare, pensare a ciò che si vedeva, a ciò che veniva utilizzato e come; la ricetta della nonna che non era scritta ma era assorbita per esperienza, solo dopo averla fatta centinaia di volte, dopo aver sbagliato e riprovato, poi ti usciva come l’originale. Con l’uscita dei due ricettari che impongono una linea e fanno smettere di ragionare sul far propria la ricetta, si è smesso di imparare e si esegue solo.
Quale è lo scopo personale di “La Repubblica del Soffritto”?
Io voglio raccontare e mostrare che ogni persona che ho incontrato, e di cui mi sono innamorato, in questo percorso (che siano contadini, pastori, nonnine, pescatori) aveva dentro di se esattamente la capacità di saper qual è la pillola giusta da prendere, come in Matrix, perché loro lo hanno sempre saputo e non hanno mai creduto alle altre pillole. È tutto lì, bisogna decidere se il mondo che ci circonda è vero o è falso, e se tu hai sempre visto il mondo vero, brutto o bello che fosse sapevi quale era la realtà, sapevi toccare, vedere e osservare allora alle puttanate non ci credi. Ciò che io faccio è dimostrare alle persone che hanno gli strumenti per non credere alle menzogne.
Una volta feci questo video di una nonnina siciliana che faceva i cannoli e c’era questa pentola piena di escoriazioni perché quella pentola stava lì da sempre; la gente diceva “che sporca” e la ragazza con cui facemmo il video diceva “se solo le pentole potessero parlare!”. Immaginate quante cose ha visto quella pentola, quante cose bellissime vede una pentola.
In ogni tua parola sento davvero l’amore per le persone oltre che per la causa!
Il mio lavoro, in questo podcast, è stato quello di spiegare in modo più esaustivo la loro saggezza. Tutto il loro modo di pensare è fluido, chiaro e diretto. Io con loro posso parlare di qualsiasi cosa: violenza di genere, guerre, fascismo e post fascismo, religione, umanità e loro risponderanno sempre in mondo sensato. Perché hanno una storia forte che ha lasciato segni. Ogni cosa è un segno e ogni segno ha un senso. Quando mi innamorai di queste persone mi sono detto “io non smetterò mai di ascoltarle” ed è un problema in un certo senso, perché una volta che sei entrato nel loro mondo di villani ed hai visto che il loro modo di funzionare è il più pulito, il più onesto, poi non credi più a tutto il resto che vedi. Hanno una saggezza dei fatti che ti sconvolge. Sono furbi e misurano il grado di provocazione che c’è in ogni domanda, reagendo subito a tono. Loro lavorano sul rapporto con te, sanno dove vuoi andare a parare e decidono loro dove portarti. Loro giocano e si liberano con me anche perché sentono limpidamente che io, nonostante abbia un background diverso, mi sento più basso di loro e quindi si sentono tranquilli, non giudicati e così mi portano ovunque gli vada. Nei podcast si sente che le domande non me le scrivo, che seguo loro proprio perché la tecnica è semplicemente stare in ascolto, con loro.
Che è un po' tutta la base di ciò che fai: donare ascolto, ridare degna storia al paese.
Fare una scelta del genere è una scelta fragilissima. Il cinema del reale nasce in Italia e tutto il mondo cinematografico si basa su di esso, da ladri di biciclette. Se non ci fossero stati Rossellini, Visconti o De Filippo, non ci sarebbe stata l’arte degli ultimi 30-40 anni; Tarantino conosce a memoria il cinema italiano perché era basato sul popolo, perché intellettuali come Pasolini sapevano che per esprimersi attraverso un racconto vero bisognava partire dalle emozioni di tutti. Da questo è partita la mia riflessione: perché la cultura attuale non parte dal racconto universale dei vissuti delle persone comuni. Ad un certo punto l’intelligenza ha pensato di bastare a se stessa. Il mio lavoro è qualcosa che sento per me indispensabile, spero lo diventi per qualcun altro ma per me è inesorabile, nel senso che una volta toccato il miele non posso più tornare indietro.
Quali sono i progetti per il futuro?
C’è un progetto che segue “I Villani” che è scrivere un film simile sugli artigiani, perché come il cibo anche gli artigiani soffrono altrettanto. Poi tanti progetti che nascono pian piano nella mia testa: ad esempio ora sto lavorando ad un progetto sul covid e sarà un ennesimo omaggio a Napoli ad un certo punto, però sempre tenendo lo sguardo dal basso verso l’alto cioè io sto lì ad assistere ed ascoltare e quindi poi a mettere in rilievo il vissuto delle persone.
E un augurio?
Mi auguro che si possa davvero fare un lavoro serio sulla cucina popolare, non è poi così facile fare un lavoro creativo, leggero, popolare, universale ma allo stesso tempo rigoroso.
Io credo molto nella capacità delle nuove generazioni di migliorare le generazioni precedenti. La mia è una carriera ventennale, ormai lunga, e penso di aver avuto la funzione di riattivare delle cose ma sono sempre certo che arrivi qualcuno dopo che è capace di prendere ispirazione e forza da un percorso del genere e trasformarlo in linguaggio attuale, quindi renderlo più al passo con i tempi. Se le nuove generazioni e i nuovi pensatori hanno la stessa curiosità che hanno tutti i napoletani di conservare sta cosa con orgoglio e senza vergogna, senza chiusura verso il territorio e la tradizione, sapere che quella cosa che ci induce dentro Napoli e la stessa presente in Vietnam o in Val Brembana o in Senegal perché ha la stessa radice che accomuna la cucina popolare, penso che ci siano delle possibilità e delle speranze che il linguaggio delle nuove tecnologie e dei nuovi social possa far emergere, in modo molto più potente, ciò che è stato dimenticato. Il problema è che c’è tutta una serie di generazioni che hanno dimenticato e non hanno saputo rendere attuali quegli insegnamenti. Se si prendono la poesia, la purezza e il rigore di quelle cose e si trasformano, si traslano nell’epoca moderna sicuramente la cultura ne guadagna, sicuramente l’arte ne guadagna, sicuramente il cibo ne guadagna. La sfida è rendere attuali, nella modernità, e trovare quanto c’era di bello e condividere, trasmettere senza dogmi.
L’intervista finisce ma Daniele non smette di parlare, perché dentro di me risuonano le sue parole, si riattivano ricordi che non pensavo nemmeno di avere più. Non è facile tornare da un viaggio del genere, non è semplice uscire dalla caverna né tornare dall’isola o dallo spazio; la cosa certa è che il tempo non sarà lo stesso e che da ora in poi non si potrà smettere di ascoltare, non si potrà più avere dubbi sul mondo reale.